L’Index of Economic Freedom dell’Heritage Foundation misura ogni anno la libertà economica presente in 184 Paesi del mondo
Ha scritto Ludwig von Mises: “La libertà di cui ha goduto la gente nei paesi democratici della civiltà occidentale negli anni d’oro del vecchio liberalismo non è stato un prodotto della costituzione, delle carte dei diritti, delle leggi e degli statuti. Questi documenti tendevano soltanto a salvaguardare la libertà prodotta dal funzionamento dell’economia di mercato dall’usurpazione da parte dei pubblici poteri. Nessun governo e nessuna legge civile può garantire e realizzare la libertà se non sostenendo e difendendo le istituzioni fondamentali dell’economia di mercato”.
Tale argomentazione dello scienziato austriaco porta a cogliere con pienezza sia l’importanza fondamentale della libertà economica, sia l’indissolubile relazione che la lega alla libertà politica, la quale, come ha pure messo in evidenza Friedrich A. von Hayek, costituisce “perciò una condizione indispensabile per tutte le altre libertà e la libera impresa è insieme una condizione necessaria e una conseguenza della libertà personale”.
Da ciò deriva che l’economia non solo prevale sulla politica, ma ne determina persino forma e contenuto, e che qualsiasi tentativo di utilizzare gli strumenti legislativi, anche di rango costituzionale, per garantire la libertà politica sarà destinato all’insuccesso sino a quando la libertà economica sarà compressa o annullata dagli apparati pubblici e dallo Stato.
Gli interventi regolatori in economia, ancorati alla pretesa che lo Stato possa migliorare le condizioni di ognuno controllando l’intera attività economica e stabilendo quindi quali fini devono essere soddisfatti e quali no, non considerano infatti che gli uomini agiscono economicamente, e lo fanno non perché i loro fini ultimi siano economici, ma perché i loro mezzi sono scarsi. Alla base della loro attività si pone lo scambio libero e non imposto da altri. Per ottenere la massima soddisfazione dallo scambio, ciascuna parte deve però avere la piena proprietà e l’altrettanto completo controllo del bene che desidera scambiare e deve altresì disporre della sua proprietà senza interferenze da parte di terzi, come lo Stato, ad esempio.
Questa libertà è la base dell’economia di mercato, la quale è un’istituzione fondamentale in una società libera e si regge sui due pilastri della proprietà privata, tanto che è inconcepibile un libero mercato senza proprietà, e del contratto, che si esprime pure nel diritto di negoziare e apre la strada a un moltiplicarsi di interazioni che sono il frutto della scelta, dell’inventiva, della capacità d’interagire e d’intendersi. Il diritto dei privati di stipulare contratti vincolanti è uno degli elementi costitutivi dei diritti di proprietà. Ciò vale soprattutto per le moderne società industriali, in cui la proprietà è costituita per lo più non da oggetti fisici, ma da crediti e altri beni immateriali. Il che porta a considerare che non è neppure ipotizzabile un libero mercato senza proprietà. In effetti la distruzione dell’economia libera passa dalla collettivizzazione di ogni proprietà (a partire dai mezzi di produzione) e dalla regolazione dell’utilizzo di ogni bene. Quando le proprietà sono sottratte ai loro possessori legittimi o anche sottoposte a una fitta legislazione, è chiaro che siamo al di fuori di ogni logica di mercato. Il contrario del libero mercato è appunto la pianificazione centralizzata dell’economia e di conseguenza della società, da cui discende una gestione sempre più programmata della vita di ognuno. In un sistema simile, a decisioni accentrate, lo Stato opera solo per il tramite della burocrazia, cioè di quell’insieme i individui che sono posti in una posizione di irresponsabilità; prendono decisioni, ma non ne sopportano le conseguenze.
La libertà economica è quindi essenziale, perché consente a ciascuno di spendere le proprie risorse per raggiungere gli scopi individualmente decisi. È anche un diritto fondamentale di ogni individuo, che deve essere libero di lavorare, produrre, consumare e investire in qualsiasi modo lo desideri. Essa consente altresì il progresso sociale ed economico, e una maggiore prosperità, come ha del resto rilevato l’Heritage Foundation, l’importante il think tank americano, che dal 1995 pubblica l’Index of Economic Freedom, uno studio globale annuale che misura la libertà economica presente in 184 Paesi del mondo. Esso viene redatto sulla base di elementi desunti da 12 fattori quantitativi e qualitativi, raggruppati in quattro grandi categorie, o pilastri, di libertà economica: Stato di diritto (comprende misurazioni dell’efficienza della giustizia e dell’efficacia dei giudici, della tutela dei diritti di proprietà, integrità del governo); dimensione del governo (comprende l’incidenza della spesa pubblica, il carico fiscale la salute tributaria); efficienza normativa (esamina le tre libertà d’impresa, del lavoro e monetaria) e apertura al mercato (concerne la libertà di commercio, di investimento e di gestione delle finanze all’interno di un paese).
Nell’Index 2024 (periodo compreso tra seconda metà del 2022 e prima metà del 2023), ai primi quattro posti, come paesi nei quali è assicurato il maggior livello di libertà economica, figurano Singapore (1°), Svizzera (2°), Irlanda (3°) e Taiwan (4°), seguiti da altri ventidue paesi, tra cui Nuova Zelanda, Estonia, Paesi Bassi, Germania e Stati Uniti, ritenuti prevalentemente liberi. In fondo alla classifica, tra quelli meno liberi economicamente, figurano la Corea del Nord, preceduta da Cuba e Venezuela.
Dal medesimo studio si desume pure il legame che intercorre tra libertà economica e tenore di vita, che è pure messo in luce dalla constatazione che nei paesi economicamente repressi o prevalentemente non liberi, oltre il 15 per cento delle persone vive in povertà, mentre in quelli liberi la percentuale è inferiore al 2 per cento. Inoltre, il Pil pro capite nei paesi economicamente liberi ammonta a 103.869 dollari americani, mentre nei Paesi prevalentemente liberi è di 61.000 dollari americani. Viceversa, nei Paesi economicamente repressi o prevalentemente non liberi è inferiore a 11.000 dollari.
Per quanto riguarda l’Italia, il report la colloca al 38° posto su 44 Paesi della regione Europa e all’81° della classifica mondiale, dietro Albania, Costa Rica e Panama, in quanto la sua economia “è rimasta impantanata in un prolungato rallentamento. Nonostante i ripetuti tentativi di riforma, la competitività economica si è ridotta. Le necessarie riforme strutturali non sono state attuate in modo efficace e l’economia è ancora gravata da una cattiva gestione delle finanze pubbliche e da altri problemi istituzionali. Il debito pubblico, che supera il 140 per cento ed è in crescita, mina le prospettive di sviluppo a lungo termine. A causa della complessità del quadro normativo, il settore informale rappresenta ancora una parte significativa dell’attività economica in Italia”.
È una situazione che non può non destare preoccupazione, alla quale occorre porre prontamente rimedio varando riforme strutturali per affrancare la vita economica e sociale dalla presenza di politici e burocrati, estrometterli dal territorio prettamente economico per rendere possibile la libertà individuale di scelta e l’allocazione competitiva delle risorse, liberalizzare e privatizzare estesi settori economici, anche a vantaggio del pluralismo e della competizione in settori chiave, circoscrivere ruoli e compiti dello Stato. Lo stesso, in sostanza, non dovrà continuare ad assumere le dimensioni dello Stato massimo, né sostituirsi ai consociati in quello che essi possono fare autonomamente, ma limitarsi a svolgere una funzione di servizio nei confronti della libera cooperazione sociale volontaria e del mercato. Ossia: al potere pubblico deve essere demandata la “produzione di sicurezza”, ma i bisogni devono essere soddisfatti tramite la libera cooperazione sociale.
Aggiornato il 16 maggio 2024 alle ore 14:53