I casi di Tokyo e di Minneapolis
Nessuna idea sembra essere più diffusa di quella secondo cui il processo economico che riguarda il settore immobiliare debba essere corretto attraverso l’intervento dello Stato, in quanto ad esso non si applicherebbero i principi fondamentali dell’economia. Il relativo mercato, di conseguenza, laddove fosse lasciato privo di protezione legislativa e libero di rispondere alla legge della domanda e dell’offerta, sarebbe destinato a fallire. L’intromissione della mano pubblica avrebbe così il compito di eliminare o, almeno correggere la sua “anarchia”, mediante provvedimenti volti a regolamentare l’uso dei suoli, fissare standard urbanistici, controllare gli affitti e altre cose, che, nell’intenzione dei fautori, dovrebbero calmierare i prezzi, orientare l’allocazione delle risorse, combattere le “speculazioni”, anche sostenendo una parte che si pretende debole dei rapporti, individuata, per quanto riguarda le locazioni, nel conduttore. Le richieste di intervento sono sempre state invocate dalla politica e dalla burocrazia, da accademici, soprattutto di sinistra, nonché da cittadini comuni e settori della società, ormai permeati da una mentalità anticapitalistica. È questa la conseguenza di anni di diffusione di idee e credenze contro il sistema dell’economia di concorrenza, incolpato dei mali che invece esso è riuscito a risolvere nel corso dell’evoluzione umana, e di aperto ostracismo verso la cultura liberale. L’origine di ciò può essere certamente rinvenuta nel consolidarsi di idee socialiste negli intellettuali europei e nordamericani, che le hanno poi riversate nell’opinione pubblica, attraverso la stampa, i libri e altri mezzi di diffusione e formazione, e influenzato le scelte dell’attività politica e quelle della politica economica.
Gli stessi, secondo Friedrich August von Hayek, esprimono una classe che “non è composta solo da giornalisti e professori, ministri e conferenzieri, scrittori e commentatori radiofonici, artisti e attori, ma da tutte le professioni che si basano principalmente sulla capacità di trasmettere idee, senza presupporre la conoscenza della materia che divulgano. La classe include anche molti professionisti, in particolare scienziati e medici i quali, grazie alla familiarità con la carta stampata, diventano divulgatori di nuove idee anche al di fuori del loro stretto ambito; essi vengono ascoltati con rispetto, anche se parlano di argomenti completamente estranei alla loro disciplina”. Esula ovviamente da ciò la visione che l’economia di mercato, nel migliorare incommensurabilmente la condizione morale e materiale di tutti gl’individui in ogni parte del mondo, ha generato cose che non ci piacciono e che dobbiamo cambiare, ma conservando ad essa l’intrinseca natura di motore di sviluppo e progresso. Come esula l’idea che il mercato non fallisce ed è sbrigativamente considerato tale quanto è in realtà l’effetto di distorsioni imputabili all’intervento dello Stato, che ha avocato a sé la produzione del diritto mediante la legislazione e non appare in grado di tutelare i legittimi diritti di proprietà. In buona sostanza, viene considerata come fallimento del mercato soprattutto un’assenza di mercato, cui viene impedito di funzionare e di fare puntuale applicazione dei principi dell’economia.
Come avviene in modo particolarmente evidente nel settore immobiliare – che nell’immaginario collettivo è ritenuto “speciale” e da sottoporre al controllo politico-burocratico nei termini prima indicati – nonostante numerosi studi e l’evidenza empirica mostrino invece come mercati immobiliari non condizionati dalla mano pubblica e deregolamentati producano aumento dell’offerta e alloggi a prezzi accessibili. È emblematico in proposito il caso di Tokyo, la Capitale del Giappone, che è la città più grande al mondo per popolazione, con 37 milioni e mezzo (circa) di abitanti, ma occupa solamente il sedicesimo posto della classifica per costo degli alloggi. Essi sono più convenienti rispetto a Hong Kong, Parigi, Roma, Milano, New York, Sydney e Zurigo, con prezzi reali che sono persino diminuiti negli ultimi vent’anni, malgrado la sua popolazione abbia continuato ad aumentare a causa della crescente urbanizzazione. Tra il 2000 e il 2015, la città nipponica ha visto crescere di 1,5 milioni i suoi abitanti, poiché sempre più persone vi si sono ivi trasferite per trovare lavoro. Viceversa, nello stesso periodo, i prezzi degli immobili residenziali negli altri Paesi del mondo sono invece aumentati.
Nella terra del Sol levante, tutto ciò dovuto alla legge nazionale sul Rinascimento urbano del 2002, che contiene un approccio laissez-faire all’uso del territorio, che assoggetta l’edificazione dei suoli al rispetto di poche norme generali e astratte stabilite a livello nazionale e ha reso il mercato immobiliare dinamico e deregolamentato. Le nuove regole in particolare non impongono usi specifici per determinato terreno e consentono di utilizzarlo per sviluppi misti. Inoltre, è consentita la realizzazione di alloggi residenziali in qualsiasi zona, il che garantisce un’ottimale allocazione in quanto vengono costruite case nelle aree in cui c’è più bisogno. Anche per quelle classificate come “industriali”, la previsione non è inderogabile, tant’è i costruttori possono erigere complessi residenziali. Aggiungasi che, a differenza di molte altre località, dove i limiti di altezza sono assoluti, a Tokyo sono all’opposto molto più flessibili qualora i costruttori rispettino il diritto alla luce solare delle proprietà vicine.
La flessibilità del mercato immobiliare è data anche dalla circostanza e dalla constatazione che le vecchie case vengono regolarmente demolite per far posto a nuove case, garantendo così il mantenimento del dinamismo della metropoli orientale. Infatti, come ha indicato lo studioso americano Paul Boyce: “A Tokyo si costruiscono case con il presupposto che verranno sostituite entro pochi decenni. La durata media della vita delle unità abitative è solitamente di 30 anni. In parte, questo è un fenomeno storico e culturale. Dopo la Seconda guerra mondiale vi fu un urgente bisogno di alloggi. Gli edifici prefabbricati divennero la norma. Vi è anche la necessità di continuare a ricostruire per migliorare la resistenza ai terremoti man mano che si sviluppano tecniche più sofisticate”.
Un altro esempio che investe gli effetti prodotti da riforme in senso liberale della zonizzazione è quello rappresentato da Minneapolis, la principale città del Minnesota nel midwest americano. Quivi, il 1 gennaio 2020 è entrato in vigore il piano “Minneapolis 2040”, che ha reso la medesima città la prima del Paese ad aver abolito la zonizzazione unifamiliare (nota anche come “zonizzazione R1”). Questa consente di costruire in una determinata area solamente una casa unifamiliare indipendente ossia una tipologia estremamente popolare nel Nord America, visto che rappresenta il 75 per cento circa del patrimonio immobiliare (a San Francisco, il 38 per cento dei terreni edificatori è classificato come R1; a Seattle è l’80 per cento). L’idea è stata importata dalla Germania, che l’aveva utilizzata per fornire alloggi a bassa densità agli operai. In America, le prime esperienze si sono avute a Berkeley, in California nel 1916, e avevano lo scopo di tenere le sale da ballo per i neri e le lavanderie automatiche dei cinesi fuori dai quartieri bianchi. Il piano di Minneapolis ha autorizzato la costruzione di “triplex” a tre unità quasi ovunque, ha anche eliminato altre normative sull’uso del suolo, come i parcheggi minimi, che ostacolavano le costruzioni multifamiliari, e ha pure disposto l’upzoning di spazi di isolamento, aree di transito e cortili per consentire la costruzione di strutture più grandi senza speciali autorizzazioni comunali.
Per l’economista Tim Maltman, la deregolamentazione a Minneapolis ha funzionato tant’è diventata “leader delle principali città americane del Midwest nella costruzione di abitazioni pro capite negli ultimi cinque anni”, e sono diminuiti i canoni degli affitti, in seguito all’aumento dei permessi di costruzione. Di identico tenore anche l’analisi proposta da Mark Netiquette e Augusta Saraiva per Bloomberg, per i quali la deregolamentazione della zonizzazione “ha contribuito a innescare un boom nella costruzione di appartamenti e condomini nella regione, che si è rivelato un potente antidoto contro l’inflazione ed è stata fondamentale per la moderazione dei costi immobiliari della zona: la crescita degli affitti sia a Minneapolis che in altri luoghi che hanno deregolamentato la zonizzazione è molto inferiore alla crescita degli affitti nel resto del Paese”.
Alla luce di quanto evidenziato è pertanto innegabile che la regolamentazione produca effetti pregiudizievoli sul mercato immobiliare, facendo aumentare i prezzi delle case, riducendo la costruzione di nuove unità e il recupero di quelle esistenti, riducendo l’elasticità dell’offerta immobiliare e rendendo spesso e inutilmente inutilizzabili alcune aree per l’edilizia abitativa. Altri studi, altre ricerche hanno mostrato che la regolamentazione influenza il mercato del lavoro, la mobilità sociale e la collocazione delle famiglie e delle comunità. L’intervento regolatorio pubblico, in definitiva, rende una risorsa scarsa ancora più scarsa. Occorre dunque procedere nella direzione opposta, liberalizzando il mercato, riformando la legislazione urbanistica ed edilizia, deregolamentando la zonizzazione e la disciplina dell’uso del territorio.
In altre parole, è necessario abbandonare la fallace credenza nel potere salvifico dello Stato sulle problematiche abitative, da esercitare applicando al settore immobiliare il metodo ingegneristico, che ha sedotto con la pretesa di poter essere utilizzato efficacemente nel dominare le forze del mercato e condurre a un progresso della società, e affidarsi al mercato e alla cooperazione volontaria ed elettiva: i risultati non tarderanno ad arrivare.
Aggiornato il 30 aprile 2024 alle ore 18:21