La direttiva sull’efficienza energetica degli edifici è stata approvata col voto contrario dell’Italia e dell’Ungheria e l’astensione di Repubblica Ceca, Croazia, Polonia, Svezia e Slovacchia. È il trionfo del dirigismo europeo e creerà problemi enormi a un Paese come l’Italia sostanzialmente privo di spazio fiscale. Ma soprattutto rischia di ampliare artificialmente la forbice sociale tra i ricchi, proprietari di case ristrutturate che il mercato apprezzerà e valorizzerà, e i poveri, le cui abitazioni si venderanno a sconto per effetto delle basse prestazioni energetiche più ancora di quanto già non accada.
Rispetto alla proposta originaria della Commissione, gli Stati hanno conquistato maggiore flessibilità applicativa e un nutrito elenco di deroghe. Inoltre, la percentuale di ristrutturazioni e di riduzione dei consumi sarà conteggiata a partire dal 2020, quindi i lavori effettuati in questi anni concorreranno a raggiungere l’obiettivo. Al di là degli aspetti tecnici, comunque, la direttiva pone dei traguardi ambiziosi (come dicono i favorevoli) o irraggiungibili (come temono i contrari), specialmente nei Paesi caratterizzati da un ampio stock di edifici esistenti e un modesto flusso di nuove costruzioni.
La polemica infuria, anche per l’approssimarsi delle elezioni europee. In realtà, sarebbe opportuno svolgere una duplice considerazione. In primo luogo, si conferma l’idea di un’Europa inutilmente e dannosamente dirigista che, non paga di fissare obiettivi ambientali estremi, pretende di regolamentare anche i dettagli attuativi: in pratica, mettendo assieme le varie direttive sull’efficienza energetica, le rinnovabili, i motori, e così via, si ha la sensazione che il Legislatore europeo non abbia contezza delle inevitabili differenze tra paesi e regioni. Così, per tagliare le emissioni, l’idea di base è che il mix debba essere fatto di x rinnovabili, y efficienza e z trasporti a ogni scala, rifiutando pregiudizialmente l’idea che il medesimo risultato potrebbe essere raggiunto con a rinnovabili, b efficienza e c trasporti in un Paese, e d rinnovabili, e efficienza e f trasporti in un altro. A Bruxelles non è la somma che fa il totale.
La seconda considerazione è più domestica. Il Superbonus e gli altri bonus edilizi sono costati complessivamente circa 219 miliardi di euro in un triennio: più di qualunque altra politica economica del Dopoguerra. Per ristrutturare appena il 4 per cento degli edifici, abbiamo ipotecato il bilancio pubblico per gli anni a venire. Di conseguenza, il Governo dovrà necessariamente immaginare delle agevolazioni, ma queste dovranno essere chirurgiche, evitando gli eccessi di questi anni e puntando a massimizzare l’addizionalità degli investimenti. È dunque necessario sfruttare tutte le leve che non hanno impatto sul bilancio pubblico: dalla vituperata concorrenza nei mercati energetici (grazie alla quale i fornitori di energia elettrica e gas potrebbero diventare agenti del cambiamento, consolidando gli schemi commerciali sviluppati in questi anni) a una razionalizzazione della fiscalità ambientale.
Da ultimo, la direttiva con ogni probabilità amplierà una dinamica già esistente nei mercati: crescerà il divario tra le case energeticamente efficienti (quelle dei ricchi) e quelle che non tengono il passo delle nuove regole (perché i proprietari non hanno necessariamente i mezzi per affrontare lavori ingenti e costosi). Si parla tanto di diseguaglianze, ma quando si approvano norme che le fanno dilatare, i crociati dell’uguaglianza si voltano dall’altra parte.
Aggiornato il 18 aprile 2024 alle ore 09:42