La direttiva Ue “case green” contiene, tra le altre cose, anche l’invito agli Stati membri di adottare provvedimenti di controllo degli affitti
Nel lunghissimo elenco dell’intromissione della mano pubblica negli affari politici ed economici, archetipo per Ludwig von Mises della “malattia professionale di governanti, guerrieri e funzionari”, un posto di assoluto rilievo è senz’altro occupato da quello, esteso e pervasivo, sugli affitti di immobili urbani, che ha assunto le sembianze di vero e proprio sistema. Di fondo, vi è sempre stata la credenza intarsiata da pregiudizi ideologi e da pretese pianificatrici, che il patrimonio dei proprietari di immobili, considerati tra i ricchi della popolazione, fosse un fondo dal quale attingere liberamente per il miglioramento delle condizioni dei meno abbienti, che sarebbero la “parte debole” della società. Alla sua gestione, inoltre, deve provvedere la politica attraverso interventi legislativi, e non il mercato, atteso che il suo utilizzo è volto a soddisfare bisogni degli individui e assicurare loro beni e servizi necessari. Così la stessa, camuffando la sua intromissione da “salvifica” politica degli affitti, ha allungato le mani sul settore utilizzando a tale scopo essenzialmente tre strumenti legislativi, che sovente si sono presentati tutti insieme: la proroga delle scadenze dei contratti di locazione in vigore, il blocco vero e proprio degli affitti, congelando, cioè, l’importo dei canoni o determinando per legge la misura, minima, degli aumenti, il blocco degli sfratti, con la sospensione o il differimento delle date per l’esecuzione dei provvedimenti di rilascio. Un quarto intervento è stato pure sperimentato, quello dell’“equo canone”, cioè la fissazione automatica dell’ammontare degli affitti in base a parametri prefissati, ma è stato abbandonato, unitamente alle macerie che ha prodotto, dopo poco più di un decennio e mai più riproposto.
Storicamente, il controllo degli affitti è stato utilizzato a Roma nel 1470 per proteggere gli ebrei residenti dagli aumenti dei canoni di affitto. Essi, infatti, non potevano possedere proprietà nello Stato pontificio, e tale divieto li faceva dipendere dai proprietari cattolici, i quali imponevano loro canoni elevati. Il blocco è venuto meno con la bolla Dudum a felicis del 27 febbraio 1562, con la quale Papa Pio IV ha riconosciuto ai semiti il diritto di possedere proprietà fino a 1.500 scudi romani e decretato la stabilizzazione dei canoni. Sisto V, a sua volta, nel 1586, con la bolla Christiana pietas, ha ordinato ai proprietari di affittare le case a prezzi ragionevoli agli inquilini di religione ebraica e li ha altresì autorizzati ad abitare nelle città senza più l’obbligo di risiedere nel ghetto. Qualche decennio più tardi, Clemente VIII, con breve del 5 giugno 1604, prendendo spunto dalla necessità di risolvere un contrasto insorto nei vari ghetti fra proprietari e inquilini, ha sancito che, per nessuna ragione all’infuori di insolvenza, era permesso al proprietario cristiano di espellere l’affittuario ebreo, e che i canoni di affitto correnti alla data del breve dovevano rimanere bloccati in perpetuo.
In epoca più vicina a noi, il primo provvedimento sugli affitti ha visto la luce nel periodo della Grande guerra, con lo scopo di agevolare i militari impegnati nel conflitto bellico e assicurare loro la conservazione della casa affittata. In seguito, in oltre un secolo, numerosi altri provvedimenti similari sono stati via via adottati, combinando a volte alcune tra le misure di controllo, che hanno consolidato in mano ai decisori politici le locazioni immobiliari: il “regime vincolistico” ha quindi preso il posto del mercato ed è stata ridotta a mera facciata l’autonomia delle parti. Nella stessa scia, si sta ora muovendo anche l’Unione europea, che ha recentemente apprestato la direttiva “case green”, la quale contiene anche un invito agli Stati membri, “fatte salve le rispettive politiche economiche e sociali nazionali e i sistemi di diritto in materia di proprietà”, a intervenire con provvedimenti di controllo degli affitti, a favore di una indefinita categoria “delle famiglie vulnerabili”, per affrontare “la questione dello sfratto (delle stesse) causato da aumenti sproporzionati dei canoni di locazione a seguito della ristrutturazione energetica del loro edificio o della loro unità immobiliare residenziale”.
Tutto ciò anche introducendo “misure di salvaguardia efficaci per proteggere in particolare (dette famiglie) fornendo sostegno locativo o imponendo limiti agli aumenti dei canoni di locazione”, e dopo aver raccomandato che “nel fornire incentivi finanziari ai proprietari di edifici o unità immobiliari per la ristrutturazione di edifici o unità immobiliari affittati, gli Stati membri (mirino) a incentivi finanziari che vadano a beneficio sia dei proprietari che dei locatari”. Si tratta di un’iniziativa che, come è reso palese dalle espressioni adoperate, sconfina dai limiti della predetta istituzione, la quale cerca in realtà di estendere il più possibile l’ambito della propria influenza, con l’obiettivo di attuare un (ulteriore) programma politico dirigista e “statocentrico”, che assorba nelle sue spire la proprietà privata. Questa è vista infatti come un ostacolo, giacché crea una sfera nella quale l’individuo è libero dall’ingerenza statale e pone limiti allo sconfinamento del potere pubblico. Siffatti intendimenti sono altresì rilevabili dal fatto che le richiamate determinazioni stridono con le acquisizioni delle scienze sociali e i principi dell’economia, che diversamente dai proclami della politica, sono senza tempo, e non considerano soprattutto le precedenti fallimentari esperienze di iniziative similari, condotte in qualsiasi altro Paese del mondo, che sin dall’origine, persino dal punto di vista dei loro promotori, erano apparse irrazionali e contrarie agli scopi perseguiti, e quindi politicamente insensate.
Va da sé che, guardando il progetto dell’Ue da diversa prospettiva, non si comprende come essa possa persino sollecitare interventi manipolativi dei contratti, che finirebbero per alterare le dinamiche economiche e sociali e per stravolgere autoritativamente i rapporti tra le parti e la composizione degli interessi già stata cristallizzata nell’accordo negoziale, il quale, come sancisce l’articolo 1321 del codice civile: “Ha forza di legge tra le parti”. Naturalmente, la citata disposizione civilistica, che esprime un principio millenario racchiuso nel brocardo Conventio legem dat contractus, investe, tra le altre cose, anche il canone, il quale, una volta concluso l’accordo, è sottratto alla libera disponibilità dei proprietari, che sono tenuti a muoversi nei limiti definiti nella convenzione e in quelli altrettanto rigidi stabiliti dalla legge, che non consente affatto aumenti ad libitum, addirittura “sproporzionati”! In argomento, è sufficiente richiamare che Luigi Einaudi, del quale proprio in questi giorni è stato celebrato il centocinquantesimo anniversario della nascita, con un evento in Campidoglio a Roma, organizzato dal “Comitato nazionale per i 150 anni dalla nascita di Luigi Einaudi”, al quale ha aderito anche la Confedilizia, ha lasciato alcuni preziosi insegnamenti, per i quali l’auspicio è che si faccia buon uso e non finiscano invece tra le sue già cospicue: “Prediche inutili”.
Con il primo, che riguarda il mercato delle locazioni e il funzionamento, ha chiarito: “In un mercato libero nessuno fa quel che vuole, né i produttori, né i consumatori. Il Governo aumenta l’imposta sulle case? Tutti dicono: i proprietari non soffrono nulla, bastando ad essi aumentare i fitti. Errore. I proprietari desiderano sì aumentare i fitti; ma se l’avessero potuto fare, li avrebbero aumentati senza aspettare lo stimolo dell’accresciuta imposta. Se non l’avevano fatto, ciò era accaduto perché gli inquilini non si possono prendere per il collo. Se i fitti aumentano, ci si restringe in appartamenti di un numero di stanze minore; si rinuncia a certe comodità; si va a vivere nei sobborghi. Vengono fuori alloggi sfitti; e se si vogliono affittare, i proprietari devono pure decidersi ad abbassare i canoni di locazione. (…) I proprietari non possono fare quel che vogliono. Devono ubbidire al mercato”.
Con altro si è piuttosto soffermato sulla formazione dei canoni di affitto, specificando che valgono i medesimi criteri che presiedono alla formazione dei prezzi di beni e servizi in un libero mercato: il prezzo è “equo” se, a quel prezzo, c’è chi offre liberamente e chi accetta liberamente. Ossia, il prezzo di mercato tende a uguagliare domanda e offerta, e al pari di qualsiasi altro prezzo, non si può né si deve parlare di canone o di prezzo “giusto” o “ingiusto”, in quanto “bisogna ficcarsi bene in mente che l’aggettivo giusto, appiccicato dietro al sostantivo prezzo, è un corpo estraneo, il quale non ha niente a che vedere con il mercato di cui ci occupiamo (…) il quale non afferma che un prezzo sia più giusto dell’altro; ma dice semplicemente: quello è il prezzo. Il prezzo che si paga sul serio, effettivamente; non il prezzo basso di abbondanza desiderato dai consumatori o compratori e neppure il prezzo di scarsità che sarebbe l’ideale dei produttori o venditori. Il prezzo che si fa sul mercato, il prezzo che per usare il qualificativo più breve possibile possiamo chiamare prezzo di mercato, non è né giusto né ingiusto. È quello che è; è un prezzo fatto. Ecco tutto”.
Aggiornato il 09 aprile 2024 alle ore 10:49