Il controllo degli affitti distrugge l’economia

A proposito di un libro pubblicato da Confedilizia e della causa intentata da proprietari di immobili di Seattle per essere indennizzati dalla città americana per i danni subiti per il blocco degli sfratti

“Controllare gli affitti, distruggere l’economia. Con misure dannose per tutti, a iniziare dagli inquilini” è il titolo emblematico del volume che, alcuni anni fa, ha inaugurato la collana editoriale “Biblioteca della proprietà”, promossa da Confedilizia. In esso gli autori hanno messo in evidenza come le scelte politiche che colpiscono gli investimenti immobiliari, che nel periodo dell’emergenza da Covid-19 sono state assai restrittive, creano un grave clima d’incertezza, il quale danneggia ancora di più la società e mette in crisi gli elementi costitutivi del diritto e di un ordine di giustizia. In effetti, hanno specificato, impedire alle parti di concordare liberamente l’affitto o al titolare di rientrare in possesso del proprio bene, pure quando l’inquilino è moroso ed è stato persino sfrattato, equivale a svuotare di contenuto l’autonomia privata, negare ogni validità agli impegni contrattuali e privare di senso la proprietà stessa. È pertanto necessario difendere la proprietà e avversare l’interventismo pubblico, che nel settore immobiliare assume le sembianze del controllo degli affitti, del quale il blocco degli sfratti rappresenta una delle sue più diffuse espressioni, con la consapevolezza che danneggiano, è vero, i proprietari ma sono proprio gli inquilini coloro che, in definitiva, finiscono per pagare il prezzo più alto.

Molte delle argomentazioni del libro si ritrovano nella domanda che alcuni proprietari di immobili di Seattle, la città portuale sulla costa occidentale degli Stati Uniti d’America, avevano proposto per essere indennizzati dal Governo della città. Questa nel marzo 2020, nel periodo pandemico, aveva adottato una serie di ordinanze di blocco degli sfratti sia per morosità sia per finita locazione o altre cause, consentendo l’esecuzione solamente nei limitati casi in cui l’inquilino avesse costituito “una minaccia imminente alla salute o alla sicurezza dei vicini, del proprietario o dei membri della famiglia dell'inquilino o del proprietario”. I provvedimenti erano stati motivati con la necessità di ostacolare la diffusione del virus, consentendo ai conduttori di continuare a occupare le case ed evitando così che rimanessero senza tetto. Era stato pure giustificato il mancato pagamento dei canoni, che aveva condotto alla risoluzione dei contratti, ritenendo che i licenziamenti dovuti alla crisi pandemica avevano impedito a molte persone di corrispondere gli affitti.

Detta domanda era stata però disattesa in sede giudiziaria dalla Corte d’appello del 9° Circuito degli Stati Uniti, che aveva invocato il precedente della causa Yee v. City of Escondido (1992) e riconosciuto così al Governo, nella specie alla città di Seattle, di poter cambiare i termini e la durata dell’occupazione di una proprietà a favore di un inquilino senza che ciò costituisse un esproprio, a condizione però in origine la detenzione fosse stata ceduta volontariamente dal proprietario. La questione è stata quindi portata dinanzi alla Corte Suprema degli Stati Uniti, che sarà così chiamata a pronunciarsi in via definitiva sulle richieste dei proprietari affittuari, sostenuti nell’occasione dal Cato Institute, il think tank statunitense di orientamento libertario, che è intervenuto come amicus curiae. A sostegno del gravame, i ricorrenti hanno ribadito innanzitutto che i blocchi degli sfratti equivalevano a espropri senza indennizzo, e questi non sono però consentiti da due emendamenti il V e il XIV della Costituzione degli Stati Uniti d’America, secondo i quali è fatto divieto all’Amministrazione di acquisire la proprietà privata per uso pubblico senza corrispondere un giusto corrispettivo. Né, a loro avviso, ostava al riconoscimento del diritto rivendicato l’altra decisione richiamata dal giudice di prime cure. Essa, infatti, era stata adottata nella diversa vertenza promossa da proprietari dei terreni fittati a proprietari di case mobili nella città di Escondido in California, che avevano richiesto di poter rimuovere una casa mobile nel caso di vendita a terzi ovvero di riscuotere una commissione in conseguenza del trasferimento oppure di poter disapprovare un acquirente che fosse stato in grado di pagare l’affitto. La Corte aveva respinto la domanda rifacendosi al California Mobilehome Residency Law (Mrl), secondo cui è possibile risolvere il contratto in casi limitati, come, tra gli altri, per mancato pagamento del canone oppure per la decisione del proprietario del parco di mutare l’uso del suo terreno. Ha rilevato altresì che, sebbene la legge statale non ponga alcuna limitazione al canone di affitto che il proprietario di un terreno può chiedere, la città di Escondido ha invece adottato una ordinanza di controllo degli affitti delle case mobili, con la quale ha fissato i relativi importi ai livelli del 1986 e proibito il loro aumento senza l’approvazione del Consiglio comunale. A parte ciò, i proprietari istanti hanno altresì dedotto che il contestato blocco degli sfratti ha violato ingiustamente i diritti di proprietà, che è invece indispensabile proteggere, posto che la protezione è fondamentale per il progresso della civiltà e la prosperità economica. Invero, non si può vivere, tanto meno vivere bene, senza procurarsi dei beni. E le persone generalmente non saranno propense a dedicare tempo, sforzi e risorse alla produzione di beni a meno che non traggano beneficio da simile investimento.

Simili intendimenti erano stati espressi anche dai Padri fondatori degli Stati Uniti, tra i quali John Adams, che aveva sostenuto che “la proprietà deve essere garantita altrimenti non potrà esistere la libertà”, e Alexander Hamilton, per il quale “un grande obiettivo del Governo è la protezione personale e la sicurezza della proprietà”. Per gli stessi Padri fondatori, inoltre, la protezione doveva essere estesa anche nei confronti di “maggioranze oppressive, interessi particolari e funzionari governativi” e pure per evitare non solo che la maggioranza si impadronisse della proprietà della minoranza ricca, ma che i ricchi usassero la loro influenza per minacciare i diritti di proprietà dei poveri. Tutti timori che avevano poi portato alla “takings clause” contenuta nel V emendamento, che impone di corrispondere il giusto indennizzo nel caso in cui il Governo autorizzi l’occupazione di una proprietà. Questa, come ha sottolineato Thomas W. Merrill, “è forse la forma più grave di invasione degli interessi patrimoniali del proprietario”, al quale è anche impedito l’esercizio del diritto di esclusione, ossia di quel diritto che costituisce la conditio sine qua non della proprietà. Per il citato autore “l’esclusione è alla radice della proprietà perché l’istituzione della proprietà dipende dal possesso, e l’esclusione è alla radice del possesso”. A sua volta, William Blackstone ha descritto il diritto di proprietà come “quel dominio unico e dispotico che un uomo rivendica ed esercita sulle cose esterne del mondo, con totale esclusione del diritto di qualsiasi altro individuo nell’universo”. È una definizione che viene fatta risalire alla concezione romana, che attribuiva specificatamente al proprietario un insieme di diritti rispetto a tutto ciò che rientrava nel suo dominio, escludendo gli altri individui.

La centralità del diritto all’esclusione è stata pure riconosciuta più volte dalla Corte Suprema ed è stato altresì rilevato che la sua violazione, anche con i provvedimento di controllo degli affitti, produce danni economici, come hanno mostrato alcuni studi secondo i quali i diritti di proprietà esprimono le variabili che spiegano meglio la prosperità economica e si riscontra altresì una relazione significativa tra una maggiore tutela dei diritti di proprietà e un reddito pro capite più elevato. In altre ricerche, è emerso che la prosperità economica è maggiore nei Paesi che assicurano una tutela più incisiva dei diritti di proprietà, come avviene in quelli che tutelano il patrimonio degli azionisti e dei creditori, che possono vantare mercati dei capitali più grandi e più ampi e una maggiore crescita economica in generale. A identici risultati si perviene anche confrontando luoghi con lingua, cultura e tradizioni simili. I sudcoreani, ad esempio, godono, in media, di un reddito che appare almeno 17 volte maggiore rispetto ai nordcoreani. La Finlandia e l’Estonia sono praticamente vicine, le loro lingue condividono una radice comune e hanno culture e valori affini. Eppure, mentre il loro tenore di vita era più o meno lo stesso negli anni Trenta, nel 2000 il finlandese medio guadagnava da 2,5 a oltre sette volte quello che guadagnava l’estone medio, che aveva vissuto per cinquant’anni sotto il dominio comunista. Questo aveva reso significativamente più povera anche la Germania dell’Est rispetto alla Repubblica federale di Germania. Ancora, nel 2000 il Pil reale pro capite della Cina comunista era poco meno di 4mila dollari, ma notevolmente inferiore a quello di Taiwan, che si era separata dalla Cina durante la rivoluzione comunista, che mostrava invece un Pil reale pro capite di oltre 17mila dollari. Il Pil reale pro capite di Hong Kong, che aveva posto fine a un secolo di dominazione britannica appena un anno prima, era pari a 25.153 dollari, mentre quello della Cambogia era di 247,35 dollari nel 1993, alla fine della Repubblica popolare di Kampuchea, e ha raggiunto i 1.759,61 dollari nel 2022, durante il periodo della nuova una monarchia costituzionale.

A fronte di tutto quanto detto, è pertanto auspicabile un verdetto positivo della Corte Suprema degli Stati Uniti, che accordi la tutela e il riconoscimento alle giuste pretese indennitarie dei proprietari danneggiati e restituisca, nel contempo, piena dignità e consistenza ai diritti di proprietà, i cui benefici sono innegabili. E che, in un contesto di libertà, nel quale non siano quindi apprestate limitazioni al loro esercizio né “protezioni” legislative agli inquilini, ingenuamente considerati “deboli”, possano dispiegare effetti positivi non solo per proprietari e conduttori ma anche per l’economia nel suo complesso. Di tanto – non sembra inutile segnalare – era consapevole anche Adam Smith, che nella sua monumentale opera del 1776, “Indagini sulla natura e la ricchezza delle Nazioni”, ha affermato: “Il commercio e l’industria raramente possono prosperare a lungo in uno Stato (…) in cui le persone non si sentono sicure nel possesso delle loro proprietà”.

Aggiornato il 03 aprile 2024 alle ore 09:37