La flat tax, la soluzione per un problema urgente

Un sistema uguale per tutti, da inserire nella riforma fiscale, abbandonando la progressività dell’imposizione, che ha frenato lo sviluppo e ostacolato la vitalità economica

In una recente intervista a un quotidiano nazionale, Maurizio Landini, segretario generale della Cgil, rispondendo a una domanda sulla riforma fiscale, ha puntato il dito contro la “flat tax per il lavoro autonomo e il concordato preventivo”, addirittura definiti “una follia” e ha sottolineato di essere contrario alla “delega votata in Parlamento perché si basa su una logica di condoni, senza intervenire su profitti ed extra profitti, o sul nodo dell’evasione fiscale che rimane un problema centrale”. A corredo di ciò, ha anche dichiarato che “circa il 90 per cento dell’Irpef lo pagano i lavoratori dipendenti e i pensionati. La tassazione sul lavoro dipendente e sulle pensioni è troppo alta”.

A parte l’approccio non adeguato riguardo alla questione sottopostagli, che ha peraltro liquidato frettolosamente con considerazioni che si risolvono in pura circolarità, l’esponente sindacale ha pure mostrato di non aver affatto considerato che, allo stato attuale, il carico delle imposte grava piuttosto, e in modo rilevante, sui lavoratori indipendenti (che vanno intesi in senso ampio, comprendendo anche commercianti, artigiani, professionisti, e in genere tutti i prestatori autonomi e le imprese). Gli stessi, i tax-payer, infatti, non solo pagano di più in termini di imposte sul reddito – è un fatto indiscutibile – ma versano all’erario anche una percentuale maggiore dei loro introiti. Vi è anche da rilevare che, all’aumentare del loro reddito, cresce anche la responsabilità fiscale sullo stesso. Il che equivale a dire che, a fronte del suo incremento, non solo aumenta la quota da versare come tasse, ma sale contestualmente la percentuale di reddito cui sono obbligati a rinunciare. Detto sistema di imposta sul reddito, com’è noto, è definito progressivo, proprio perché non solo si paga una quota maggiore in tasse, man mano che il reddito aumenta, ma si versa proporzionalmente di più.

Anche in Italia, al pari di quanto avviene nella maggior parte dei Paesi occidentali, il reddito individuale è assoggettato a tassazione con aliquote progressive. Il relativo principio è contemplato dall’articolo 53, comma 2, della Costituzione, che riguarda l’intero sistema tributario italiano, ed è collegato alla previsione del comma 1 della medesima norma, secondo cui “tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva”.

Invero, è appena il caso di prospettare che, se si prescinde dalla predetta previsione, la Carta fondamentale (né altra norma) non indica quale debba essere il tipo, il grado e la misura della progressività da adottare. E non indica neppure alcun limite invalicabile superiore. Come dire che è affidato al legislatore ordinario e, di conseguenza, alla maggioranza del Governo, il compito di determinare in concreto la struttura e l’andamento della progressività della tassazione.

Lungamente avversato in ogni contesto, tanto da essere persino definito da Adolphe Thiers “semplicemente un arbitrio odioso” e da John Stuart Mill “una forma moderata di furto”, il principio di progressività, introdotto sotto falsi pretesti, è il prodotto di un’invenzione recente: abbiamo vissuto per molto tempo senza pensare che l’imposta potesse essere più che proporzionale. Alcuni precedenti storici non spostano i termini del discorso. Tra essi, uno dei più noti è sicuramente quello dell’imposta applicata a Firenze al tempo dei Medici, la “decima scalata” (cioè progressiva), detta anche la “graziosa”, che poneva un onere molto elevato a carico della proprietà. Tanto che, nella maggior parte dei casi, i fiorentini abbienti erano costretti a vendere i propri beni per pagare il tributo. L’imposta era applicata con molta discrezionalità ed era anche utilizzata dai Medici per indebolire i loro avversari politici.

In tempi più vicini a noi, la Germania, nel 1891, è stata la prima nazione a istituire l’imposta progressiva, con aliquote che andavano dallo 0,67 per cento al 4 per cento, seguita, vent’anni dopo dagli Stati Uniti d’America e dal Regno Unito e poi, via via, in meno di una generazione, da molti Paesi nel mondo. Karl Marx e Friedrich Engels si ritrovano fra i teorici del principio in questione. E non a caso. Nel Manifesto del Partito comunista del 1848 si sono espressi apertamente a favore di una tassazione fortemente progressiva, come una delle misure con le quali, dopo il primo stadio della rivoluzione, “il proletariato userà il suo potere politico per strappare gradualmente alla borghesia tutti i capitali e centralizzare tutti gli strumenti della produzione nelle mani dello Stato”.

Sul fronte opposto, Friedrich August von Hayek ha ricordato: “Quando all’epoca della Rivoluzione francese e di nuovo durante l’agitazione socialista che precedette la rivoluzione del 1848, fu apertamente sostenuta come un mezzo per redistribuire i redditi, venne respinta con decisione. Meglio l’esecuzione dell’autore che l’esecuzione del progetto, fu l’indignata reazione del liberale Turgot ad alcune delle prime proposte di questo genere. J.R. McCulloch espresse la principale obiezione con una frase, spesso citata, Nel momento in cui si abbandona il principio cardine di esigere da tutti gli individui una uguale proporzione del loro reddito o della loro proprietà, ci si trova in alto mare senza timone né sestante, e non ci sono ingiustizie o follie che non si possono commettere”.

Il fatto è comunque che, a sostegno del principio di progressività, che sembra ormai dato per acquisito, si è assunto che, per finanziare la spesa pubblica, sia legittimo chiedere di più a quelli che hanno di più. Si vuole cioè realizzare un’uguaglianza di sacrificio, prendendo a pretesto la legge dell’utilità marginale decrescente. Ma ciò è scientificamente insostenibile. Infatti, come ha fra gli altri sottolineato ancora von Hayek, la teoria economica ha mostrato che l’utilità marginale di un bene – o di un reddito – è decrescente per un dato individuo. Ha però escluso che si possa fare un confronto interpersonale delle utilità. Per farlo, è necessario porre il potere pubblico a supremo giudice delle posizioni, dei vantaggi e degli svantaggi personali. Inoltre, il concetto di utilità non può neppure essere applicato ai redditi complessivi, in quanto non è possibile considerare reddito tutti i vantaggi che un individuo trae dall’uso delle sue risorse.

C’è di più. La progressività è pure “giustificata” con l’idea che essa permetterebbe di dare soluzione al compito pubblico della solidarietà. Si vuole cioè realizzare una compensazione fra i redditi tramite la loro redistribuzione. Ma neppure tale argomentazione può essere seriamente adoperata per “legittimare” un profondo prelievo dai redditi individuali. Anche qui il postulato è apertamente politico: si pretende di imporre alla società una distribuzione della ricchezza determinato da una decisione della maggioranza. In effetti, non c’è un “reddito nazionale” suddiviso in modo più o meno arbitrario tra gli individui, che andrebbe invece equamente ripartito tramite l’intervento redistributivo del potere politico. Né è possibile ipotizzare l’esistenza di un “reddito adeguato”, che sarebbe la remunerazione legittima e desiderabile per ogni individuo, che andrebbe sovrapposta a quella prodotta dal mercato, cioè dalla cooperazione sociale volontaria.

Non ci si rende conto che la progressività dell’imposizione e la conseguente redistribuzione determinano conseguenze letali per lo sviluppo economico. Distruggono le risorse esistenti, perché le sottraggono agli impieghi più urgenti decisi dalla cooperazione volontaria e le destinano a un uso politico. Al che si aggiunge la disincentivazione della produzione di nuove risorse, poiché nessuno ha interesse ad agire, sapendo che il risultato della sua azione gli verrà sottratto dal fisco. La progressività infrange poi il principio, universalmente riconosciuto, dell’“uguale compenso per uguale lavoro”, facendo dipendere la remunerazione netta di ogni soggetto dagli altri suoi guadagni in un dato periodo (in genere un anno), e appresta una rigida, e anche moralmente ingiustificata, limitazione ai redditi degli individui che con la loro professionalità sanno servire meglio i loro concittadini.

Altre argomentazioni si potrebbero validamente opporre all’imposizione progressiva, che mostra sempre più di essere un potente strumento nelle mani del ceto politico e della burocrazia. È tanto potente che nessun Governo ne vuole rinunciare. Le critiche e i danni sembrano ininfluenti. Ma per quanto? è perciò necessario muoversi verso altra direzione, prima che sia troppo tardi, eliminando gli elementi di progressività dal sistema fiscale a favore di un altro che assoggetti il reddito, qualora debba essere tassato, alla flat tax ossia ad aliquota unica proporzionale dell’imposta, da contenere, peraltro, in misura minima (tra 15 e 20 per cento). È questa l’idea formulata per la prima volta da Milton Friedman nel 1962, e significherebbe, in sostanza, che ogni euro guadagnato in reddito, dal primo all’ultimo, sarebbe tassato esattamente con la medesima aliquota, che sarebbe unica e fissa indipendentemente dall’entità totale del medesimo reddito.

Inoltre, pur potendosi discutere su quale dovrebbe essere la misura dell’aliquota, si avrebbe che ogni volta che questa venga modificata, in qualunque direzione, lascerebbe immutate le conseguenze per ogni contribuente. E ciò consente anche di affermare che il sistema a flat tax è giusto e semplice. È giusto, perché riconosce che i percettori di reddito alto dovrebbero pagare di più rispetto a quelli che percepiscono un reddito basso, ma respinge la visione marxista secondo cui i primi dovrebbero pagare proporzionalmente di più, semplicemente perché hanno, o si presume abbiano, una maggiore capacità di pagare proporzionalmente di più.  È semplice, perché evita le complessità contabili di soglie multiple, riducendo così i costi di conformità associati alla normativa dell’imposta sul reddito.

Senza contare che, come ha scritto l’economista americano Daniel J. Mitchell a proposito della situazione italiana: “Le elevate aliquote fiscali del sistema attuale hanno ostacolato la vitalità economica e contribuito a produrre livelli molto elevati di evasione. Se si adottasse una flat tax semplice e a basso tasso, accadrebbero due cose: ci saranno più entrate del previsto a causa di una migliore performance economica; ci saranno più entrate del previsto a causa di una minore economia sommersa”.

Aggiornato il 26 marzo 2024 alle ore 11:20