Una rilettura del capolavoro di Francis Scott Fitzgerald, un affresco dei “ruggenti anni Venti”, che è anche una testimonianza dei danni prodotti dalle interferenze governative
Compie mezzo secolo di vita il film Il grande Gatsby, diretto da Jack Clayton e prodotto da Robert Evans, il mitico produttore statunitense, del quale si ricorda che a soli 36 anni fu posto alla guida dello studio Paramount. Attori del calibro di Dustin Hoffman, Michael Douglas e Bob Odenkirk hanno dichiarato che il personaggio da loro interpretato in alcuni film è stato ispirato proprio a Evans. Allo stesso si devono comunque leggendari successi del box office come Il maratoneta, Chinatown e, soprattutto, i primi due della saga Il Padrino, entrambi diretti da Francis Ford Coppola. Quest’ultimo compare, invece, come sceneggiatore nel film diretto da Clayton, che annoverava nel cast Robert Redford e Mia Farrow, nelle vesti rispettivamente di Gatsby e di Daisy, Bruce Dern in quelli di Tom Buchanan, Sam Waterston come Nick Carraway e altri importanti artisti. L’opera, nelle sale dal marzo 1974, si aggiudicò due Premi Oscar, per i Migliori costumi a Theoni V. Aldredge e la Migliore colonna sonora a Nelson Riddle, un Golden Globe per la Migliore attrice non protagonista a Karen Black e tre Premi Bafta: per la Migliore scenografia a John Box, la Migliore fotografia a Douglas Slocombe e i Migliori costumi a Theoni V. Aldredge.
Il film è il quarto adattamento, sostanzialmente fedele, dopo una versione muta del 1926 andata perduta, una seconda versione del 1949 e prima di una ulteriore trasposizione del 2013, nonché di un allestimento teatrale del 1926 e di un’opera musicale del 1999, del grande romanzo con il medesimo titolo di Francis Scott Fitzgerald, pubblicato per la prima volta a New York il 10 aprile 1925. È un classico della letteratura mondiale, che contiene un affresco dell’atmosfera affascinante degli anni Venti, l’età del jazz, celebrata dal cinema, dalla letteratura e dalla musica, davvero ricca di cambiamenti economici, sociali e culturali in una società che aveva lasciato alle spalle i disastri della prima guerra mondiale e non era stata ancora pervasa dai totalitarismi. L’opera, riguardata sotto da diversa prospettiva, offre anche uno spaccato su alcuni fenomeni tra i più interessanti della storia americana, entrambi imputabili all’interventismo dello Stato, e induce pertanto a riflettere sulle misure adottate e il loro – inevitabile – fallimento.
Innanzi tutto, Il grande Gatsby, del quale l’economista americano Mark Thornton, autore de L’economia della proibizione ne ha pure proposto una rilettura approfondita, ripercorre il periodo del proibizionismo sugli alcolici, disposto tramite il XVIII Emendamento della Costituzione degli Stati Uniti e il Volstead Act. La misura fece la fortuna di Jay Gatsby, nato James Gatz, in una famiglia di umili origini, il personaggio principale della storia raccontata da Scott Fitzgerald, e caratterizzò i “ruggenti anni Venti”, a cui fu indissolubilmente collegato. Essa, com’è noto, rese illegale la produzione, lo scambio e la vendita dell’alcol ma non lo eliminò. Provocò invece la nascita del mercato nero e la creazione, in ogni città degli States, degli speakeasy, i ritrovi clandestini, dove si potevano tranquillamente consumare gli alcolici. Si sviluppò contemporaneamente il crimine organizzato e dilagò la corruzione, soprattutto nella polizia. Il caos prese il posto dell’ordine sociale, avventurieri e criminali soppiantarono commercianti e imprenditori, si moltiplicarono gli scontri tra bande rivali a colpi di mitra Thompson per il controllo del territorio. Che raggiunsero l’apice con la strage di San Valentino, la quale innescò il malcontento nell’opinione pubblica, che sfociò nella fine di ogni divieto alle ore 17.27 del 5 dicembre 1933.
Il proibizionismo costituiva un esempio di interferenza statale, che raccoglieva il piano di un governo salutista, ispirato da intellettuali come l’economista Irving Fisher e sostenuto da società proibizioniste. Alla base vi era la credenza che spettasse al potere pubblico il compito di controllare i comportamenti individuali (id est: proteggere l’individuo da sé stesso) e di determinare il benessere dei cittadini (difendere la loro salute) e, pertanto, di porre rimedio ai problemi sociali. L’intervento così concepito sottraeva agli individui la possibilità di agire in nome dei loro interessi, sconvolgeva l’ordine spontaneo e le dinamiche del mercato, agiva sull’offerta, vietandola. Tutto ciò non produceva alcun effetto sulla domanda dei consumatori, che continuava ugualmente a prodursi, anche dinanzi a rischi e prezzi più elevati, tanto da stimolare, come detto, la nascita del mercato nero, con individui pronti a soddisfare le crescenti richieste, anche con qualità e quantità inferiori di prodotti, capaci pure di contrastare le autorità e destinati a conseguire grandi profitti.
Da qui il fallimento dell’iniziativa, che poi implose, afflosciata dagli effetti disastrosi che aveva prodotto, nei duri anni della Grande Depressione del ‘29, uno dei più inquietanti fenomeni del Novecento. Questa, come ha messo in evidenza Murray N. Rothbard nel volume La grande depressione, non è stata affatto causata dal sistema capitalistico, ma è stata una gravissima crisi economica e sociale, giunta al termine di una lunga e sistematica politica interventistica dello Stato, sostenuta dal ceto politico, con il supporto di operatori economici in cerca di “privilegi” e di insospettabili economisti, che ha condizionato fortemente il mercato e l’economia.
Proprio la disamina rothbardiana permette di cogliere nel Il grande Gatsby un’altra misura dell’interferenza della mano pubblica, la quale emerge nitidamente dalla narrazione del boom economico degli anni Venti, che avrebbe poi condotto al crollo di Wall Street. La società dell’epoca era infatti immersa nella politica espansionistica della Federal Reserve, che aveva creato l’illusione della ricchezza, la quale non consentiva profondità delle immagini e impediva di “catturare” l’estesa cascata di conseguenze negative che proprio le interferenze avrebbero prodotto. Aveva finito così per andare oltre l’industrializzazione per diventare guidata dal tempo libero e dal consumo.
Tutto ciò nel romanzo appare, ad esempio, con l’ambientazione nella Long Island delle ville eccentriche e delle feste rumorose, il grande sviluppo anche tecnologico di quei tempi, mostrato dalla presenza di automobili e telefoni che in quel momento erano beni di lusso disponibili solo per l’élite, la convinzione che sembrava serpeggiare comunemente tra la gente che non ci fosse nulla di cui preoccuparsi, alla quale era correlato l’abbandono di ogni considerazione critica, tanto da spingere gli individui a consumare più di quanto avrebbero altrimenti fatto (“Erano gente indifferente, Tom e Daisy – sfracellavano cose e persone e poi si ritiravano nel loro denaro o nella loro ampia indifferenza o in ciò che comunque li teneva uniti, e lasciavano che altri mettessero a posto il pasticcio che avevano fatto”). Ancora, le preoccupazioni materialistiche dei personaggi del racconto, sulle quali si adagia persino la liaison tra Gatsby e Daisy, le scelte operate che sembrano rispecchiare la predetta situazione, come ad esempio quella di Nick Carraway, un giovane agente di borsa, che dal Midwest si era trasferito a New York all’inseguimento del sogno americano.
“Il grande Gatsby”, in definitiva, è un capolavoro della letteratura, che si muove nella scia dei lavori di altri grandi scrittori, che hanno tratto ispirazione dagli scritti e dalle condizioni economiche e permesso così di contemplare uno scorcio o un quadro dettagliato della realtà del loro tempo. Ma è soprattutto un potente faro sull’interventismo statale e sulle conseguenze dannose delle misure adottate, che non conseguono gli obiettivi prefissati e distruggono l’economia di mercato. Le stesse inoltre recano vantaggi ad alcuni individui a spese di tutti gli altri, come nel caso di Gatsby, la cui ricchezza è stata il frutto del proibizionismo e dell’illegalità, non della sua abilità di prevedere i futuri sviluppi del mercato meglio dei suoi concittadini e di rispondere, nella misura migliore e meno costosa, ai loro bisogni insoddisfatti dei consumatori. In argomento è istruttivo quanto ha scritto Ludwig von Mises: “Ammettiamolo, le misure interventistiche possono dare vantaggi a certi individui o a certi gruppi a spese di altri. Alcune minoranze possono ottenere privilegi che le favoriscono a spese degli altri cittadini. Ma la maggioranza delle persone o la nazione nel suo insieme subiscono, a seguito dell’interventismo, solo una perdita”.
(*) La foto è tratta da una scena del film Il grande Gatsby (1974) di Jack Clayton, con Robert Redford e Mia Farrow.
Aggiornato il 14 marzo 2024 alle ore 17:37