Le recenti notizie, cui la stampa ha dato ampio risalto, che hanno riguardato le iniziative delle squadre milanesi di costruire un proprio stadio ‒ l’Inter, alle porte di Milano, nel comune di Rozzano, l’altra squadra, il Milan, invece, a San Donato Milanese ‒ hanno riportato alla ribalta una delle maggiori criticità che, da anni, investe lo sport italiano: quello degli stadi di calcio.
Questi, allo stato attuale, da un lato, sembrano apprestati, pure architettonicamente, in funzione della sicurezza e dei divieti, anche sulla spinta delle prescrizioni legislative via via introdotte; dall’altro, presentano una capacità di assorbimento del mercato tra le più basse d’Europa, per la scarsità dei servizi offerti e per il loro sovradimensionamento rispetto al pubblico cui si rivolgono.
Si tratta, in larga misura, di impianti, per limitarsi a quelli di serie A e di serie B, con un’età media di 68 anni (in Germania l’età media è di 38 anni, in Inghilterra di 35), che presentano gravi carenze nella manutenzione, il cui 50 per cento è ubicato in zone ad alta densità abitativa e solo il 30 per cento è fornito di spazi sotto tribuna, utilizzati per uffici o strutture sportive.
Molti stadi sono dotati pista di atletica leggera intorno al rettangolo di gioco, e questo rende precario lo spettacolo visivo, soprattutto dalle curve, sovente molto lontane, tant’è che la distanza fra il pallone e il tifoso può arrivare sino a 180 metri. La pista di atletica, inoltre, per quasi l’80 per cento dei casi viene utilizzata in rarissime occasioni e con scarsa presenza di pubblico.
In genere, gli impianti sono “vissuti” in media per appena 70 ore annue, e presentano un tasso di riempimento medio, dato dal rapporto tra il numero medio di spettatori e la loro capienza media, che raggiunge il 53 per cento circa, laddove è del 92 per cento quello della Premier Leauge inglese, dell’84 per cento quello della Bundesliga tedesca, dell’80 per cento quello della Ligue 1 francese e del 76 per cento della Liga spagnola. La maggior parte degli stadi italiani di serie A e B sono di proprietà dei comuni, ad eccezione dello stadio Olimpico di Roma, di proprietà del Coni, mentre la loro gestione è regolata secondo lo schema delle concessioni amministrative a terzi (per lo più le società di calcio).
Solo il 24 per cento, considerando le squadre dei due campionati maggiori, appartengono in proprietà privata alle società, a dispetto dell’80 per cento di Germania e Inghilterra. Detta situazione evidenzia come il problema degli stadi rifletta non solo la loro vetustà ed arretratezza, quanto, soprattutto, l’anomalia italiana, che è altresì resa palese dall’elevato tasso di pericolosità e violenza, dal costante calo degli spettatori (oltre il 25 per cento negli ultimi 4 anni), da gestioni costosissime e fallimentari, che rendono impossibile per le società di calcio raggiungere l’equilibrio di bilancio, nonché dai marcati ritardi nella realizzazione di infrastrutture moderne, in linea con la trasformazione del fenomeno calcistico. Quest’ultimo, infatti, da ludico e mecenatistico, da vivere una volta alla settimana, è diventato imprenditoriale ed orientato al mercato, tanto da diventare una vera e propria industria del tempo libero, da fruire in modo continuativo.
È indiscutibile come, nell’attuale contesto, sia necessaria e non più procrastinabile la privatizzazione degli stadi, da attuare mediante la cessione di quelli esistenti alle società di calcio ovvero la realizzazione, da parte di queste ultime, di nuovi stadi, ricalcando, in sostanza, i modelli americani o inglesi di “stadio totale”.
La proprietà degli stadi e la loro gestione diretta da parte dei club massimizzerebbe il potenziale degli impianti (naming, pubblicità, sponsorship, merchandising, attività commerciali, partnership), che diverrebbero polifunzionali e garantirebbero a tutti gli attori coinvolti rilevanti ricavi, per l’ampiezza del mercato, l’alto coinvolgimento che suscita il prodotto sport e, in particolare, il calcio, l’ampia visibilità che è in grado di assicurare a sponsor e partner commerciali, i diritti televisivi.
Inoltre, sarebbero oltremodo vantaggiosi anche per le società più piccole, che non beneficiano di proficui contratti televisivi. Da non trascurare, poi, come la privatizzazione degli stati consentirebbe la gestione della sicurezza, non mediante astratte previsioni legislative, sovente inapplicabili (per non parlare dei costi del personale pubblico impiegato in occasione delle partite, soprattutto quando si tratta di incontri in notturna e in giorni festivi), ma in termini privatistici attraverso le concrete determinazioni dei proprietari. Essi, infatti, avrebbero estremo interesse a salvaguardare i clienti-spettatori e potrebbero imprenditorialmente stabilire come organizzare al meglio ogni cosa, dall’assegnazione dei posti alle videocamere, dai tornelli al numero di stewards da impiegare, ecc.
I benefici, infine, prima ancora che alle società sportive, sarebbero indiscutibili per la collettività, la quale si vedrebbe sgravata dagli esorbitanti costi delle gestioni pubbliche, integralmente a carico dell’erario, e potrebbe servirsi di un prodotto d’intrattenimento totale, nel quale la partita rappresenterebbe uno dei tanti svaghi di cui si potrebbe usufruire, peraltro in modo confortevole e sicuro.
Alla privatizzazione potrebbero aggiungersi altre iniziative come il naming rights degli stadi, in ciò seguendo l’esempio delle squadre americane di Nfl, Nba, Mlb e Nhl e in Europa della Germania, che è una forma alternativa di sponsorizzazione, attraverso la quale uno stadio, un’arena o un palazzetto viene denominato con il nome di uno sponsor in cambio di un prezzo concordato fra le parti. In sostanza, la società sportiva incassa denaro, mentre l’azienda che paga ottiene un’alta visibilità a seconda della notorietà dell’impianto o delle società che lo utilizzano. È una modalità strategica, che consente di coprire i costi di realizzazione e, successivamente, di gestione degli impianti calcistici, che può intercettare l’interesse di aziende nazionali e multinazionali.
Qualsiasi altra soluzione, oltre a non risolvere il problema, manterrebbe ancora la politica e la burocrazia all’interno degli stadi e finirebbe per svalutare ulteriormente il fenomeno sportivo, il quale ‒ è bene ricordare ‒ coinvolge e appassiona milioni di persone e rappresenta ancora in Italia una delle cinque maggiori industrie, con un volume d’affari pari al 2,7 per cento del Pil.
Aggiornato il 30 gennaio 2024 alle ore 12:42