Ambizioni modeste e piccoli passi. Si è molto parlato, in questi giorni, del “ritorno delle privatizzazioni”. La formula è grandemente esagerata. Il Governo Meloni non ha intenzione di perdere il controllo delle partecipate, di cui saranno cedute solo quote di minoranza per racimolare i circa 20 miliardi di gettito necessari a rispettare l’impegno preso con la Nadef. Non è una notizia particolarmente buona ma non è nemmeno una cattiva notizia. Le privatizzazioni possono avere due obiettivi principali: generare gettito o mettere davvero sul mercato le imprese pubbliche, esponendole pienamente alla concorrenza (inclusa la possibilità di essere scalate, ovvero acquistate, da padroni sgraditi alla politica). L’Esecutivo ha scelto la prima strada, calandola in un programma di riordino delle partecipazioni statali: “È necessario fare ordine in un mondo che non sempre è ben organizzato – ha spiegato il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti – quindi il pubblico decide di entrare di più in alcune realtà e cedere altre quote perché tutto sia più efficiente e razionale e al passo con i tempi. Non è semplicemente fare cassa, è fare ordine”.
Se il Governo volesse davvero cambiare le cose e dare una spinta agli investimenti e alla crescita dovrebbe uscire interamente dal capitale delle imprese controllate, in alcuni casi rivedendone la governance (per esempio, con la separazione della rete ferroviaria da Trenitalia). Ma questo non significa che una riduzione, anche modesta, della sua presa sulle partecipate sia negativa: e non solo perché è un modo di ridurre, per quanto marginalmente, il nostro debito pubblico. Più queste imprese sono esposte alla disciplina del mercato, meno lo Stato, per quanto azionista, può farci il bello e il cattivo tempo, piegandone l’azione a vantaggio di obiettivi politici di breve termine. Se c’è una critica da rivolgere all’Esecutivo non è certo quella relativa alla vendita dei gioielli di famiglia (per usare un’espressione abusata quanto fuorviante). Il problema è che esso sta continuando sulla via tracciata dai predecessori per riacquistare quelli che, a torto o a ragione, la politica considera i suoi vecchi preziosi – dalla rete Tim ad Autostrade. Con le cessioni di piccole quote del capitale di alcune partecipate il Governo si pone in controtendenza con le scelte degli ultimi anni. Purtroppo continua, come i predecessori, a cavalcare la retorica delle “imprese strategiche”, che solo l’azionista pubblico saprebbe far funzionare a pieno regime, a vantaggio dell’interesse nazionale. Meglio, comunque, predicare male e razzolare un po’ meglio che il contrario.
Aggiornato il 24 gennaio 2024 alle ore 11:10