Liberalizzare gli affitti dei negozi

La soluzione per un problema urgente. Un’iniziativa, che non è di destra né di sinistra, per porre rimedio alla desertificazione dei centri urbani

Un fenomeno che da qualche tempo desta attenzione, ed è rilanciato frequentemente dagli organi di informazione, è quello della progressiva desertificazione dei centri urbani delle città, le quali registrano un numero sempre più crescente di attività artigianali e commerciali dismesse: ci sono ancora delle attività, ma a poche decine di metri di distanza c’è una lunga fila di saracinesche abbassate e negozi chiusi, che tuttavia fanno sovente intravedere i segni di un fulgido passato e di un benessere trascorso, ma ora esprimono un senso di abbandono. Tutto ciò ha risvolti sia economici sia sociali e si traduce nello spopolamento di strade e quartieri, che così perdono vitalità, appeal residenziale e turistico, e diventano meno frequentati e insicuri. È una situazione che congiunge la Penisola da nord a sud e va avanti da anni, ancor prima della pandemia, la quale ne ha anzi acuite certe tendenze o modificate “drammaticamente” altre, e della crisi energetica causata dalle guerre in Ucraina e in Medio Oriente. Ovviamente, le misure che hinc et inde vengono proposte per la soluzione del problema risultano in buona sostanza desunte da una disamina di superficie del citato fenomeno, e di conseguenza si risolvono in pura circolarità con la richiesta di altri e più penetranti interventi statali, che finiranno inevitabilmente per non raggiungere alcuno degli obiettivi e a generare, come esiti inintenzionali, risultati contrari a quelli ipotizzati dai fautori, peggiorando le condizioni anziché migliorarle.

Invero, scendendo più in profondità e analizzando la vicenda senza alcun condizionamento ideologico, non si può fare a meno di rilevare che almeno tre fattori, tutti piuttosto imputabili all’interventismo statale, hanno prodotto o concorso a produrre la rilevata desertificazione dei centri urbani, alla quale occorre pertanto porre rimedio attraverso ben altre misure. Il primo può essere individuato nelle scelte operate con la pianificazione urbanistica, la cui pratica si è diffusa soprattutto a partire dalla legge del 1942, che ha autorizzato gli interventi sul territorio per ogni esigenza connessa allo sviluppo del sistema insediativo e non più con l’unica finalità di regolare gli aspetti sanitari. La sua ratio ispiratrice è che l’uso del suolo non possa essere lasciato alle decisioni individuali ma debba essere pianificato, secondo un disegno razionale, dal potere politico, il quale deve altresì controllare la proprietà immobiliare sia per favorirne la sua “funzione sociale” sia per evitare che i privati possano da essa trarre “indebite” rendite di posizione; i privati non possono scegliere se costruire su un proprio terreno e, men che meno, cosa costruire su di esso, mentre è addirittura scontato che le infrastrutture debbano essere realizzate dagli operatori pubblici. Sulla base di ciò, si è così fatta strada la pratica della zonizzazione, con la quale è stata imposta da politici e burocratici l’arbitraria riorganizzazione fondiaria delle città, separando, le une dalle altre, le diverse aree, residenziali, commerciali e industriali e stabilendo, all’interno di ogni singola zona, le tipologie, le dimensioni e la densità di fabbricati consentiti e degli utilizzatori, i limiti al numero di abitazioni e di nuove abitazioni o di attività commerciali, artigianali e professionali, gli standard urbanistici. Fino al punto di obbligare a impiantare nuovi manufatti e attività solo in alcuni settori o località. Com’è evidente, non si è tenuto conto che le città, che hanno avuto origine spontanea e altrettanto spontaneamente si sono evolute, sono sistemi complessi ed essi in natura si auto-organizzano dal basso verso l’alto, a partire da elementi meno complessi. Né si è considerato che, pur in assenza di una pianificazione urbanistica, che non è affatto l’unico modo per regolare una proficua e benefica convivenza nelle città, per millenni, e attraverso la cooperazione sociale volontaria, facendo uso delle proprie creatività e intraprendenza, l’uomo ha creato il proprio ambiente di vita, ha fatto nascere e sviluppato le comunità, che hanno resistito al tempo. E ha realizzato borghi, città e opere meravigliose.

Ancor di più pervasivo, e soprattutto determinante nella causazione della denunciata desertificazione urbana, risulta essere l’altro fattore ovverosia il controllo degli affitti, che è la forma che ha assunto l’interventismo statale nel settore delle locazioni degli immobili. Allora, con le sembianze della politica degli affitti e nell’abbondante concetto di controllo degli stessi, ha coperto un ampio spettro di regolamentazione. Essa si è estesa dalla determinazione della durata minima dei rapporti, di sei anni per gli immobili locati a uso diverso da abitazione (nove per uso alberghiero), a quella dei canoni e dei loro aggiornamenti, sino a restrizioni riguardanti altre clausole del contratto, come quelle che impongono il rinnovo automatico, in assenza di motivi di necessità, alla prima scadenza, mentre riconoscono al conduttore di recedere liberamente dal contratto. E, persino, l’indennità di avviamento sempre a favore del locatario, pari a 18 mensilità per le locazioni commerciali, 21 mensilità per le locazioni alberghiere che addirittura raddoppiano nel caso in cui l’immobile “venga, da chiunque, adibito all’esercizio della stessa attività o di attività incluse nella medesima tabella merceologica che siano affini a quella già esercitata dal conduttore uscente ed ove il nuovo esercizio venga iniziato entro un anno dalla cessazione del precedente”. Tutto ciò ha finito per ridurre notevolmente la propensione all’affitto di detta tipologia di immobili e la loro redditività per i proprietari, tant’è che sempre più spesso preferiscono mantenere sfitti i locali, piuttosto che impelagarsi in rapporti di lunga e incerta durata, con canoni che devono essere sostanzialmente mantenuti invariati per il medesimo tempo, in assenza di garanzie nel caso di inadempienze da parte dei conduttori nel pagamento dei canoni o per altri motivi. Né migliore sorte è loro assicurata, a causa delle procedure e dei tempi richiesti, per il recupero degli immobili, che non è affatto agevole e neppure immediato, nei casi di risoluzione del contratto, ovvero dei canoni non corrisposti, sui quali continuano a pagare le tasse, e delle eventuali indennità per ritardato rilascio e per danni. Sempreché il recupero del bene non sia addirittura coattivamente impedito da un provvedimento di sospensione degli sfratti, come è già successo numerose volte e, da ultimo, durante la pandemia. Oppure – è la cosa è ancor di più paradossale – sia finanche disposta autoritativamente la riduzione dei canoni, laddove l’immobile sia stato concesso in locazione a un’amministrazione pubblica.

Il terzo fattore è rappresentato dall’eccessiva tassazione che grava sugli immobili, tant’è che la necessità di adottare una diversa e più favorevole fiscalità con la cedolare anche per le locazioni non abitative era apparsa talmente evidente che a richiederla, oltre a Confedilizia, erano state le associazioni dei commercianti, convinte anch’esse che l’eccesso di imposizione sui proprietari dei locali affittati ostacolasse l’apertura di nuove attività. In assenza della cedolare, che era stata prevista per i contratti stipulati nel 2019 e presto ritirata, il proprietario è infatti soggetto all’Irpef, all’addizionale regionale Irpef, all’addizionale comunale Irpef e all’imposta di registro, per un carico totale che può superare il 48 per cento del canone e al quale deve aggiungersi la patrimoniale Imu, oltre alle spese di manutenzione dell’immobile e al rischio morosità.

Da quanto sopra esposto si deduce, chiaramente, che vanno prontamente corretti gli errori, mettendo da parte pregiudizi e steccati ideologici. E affidandosi piuttosto alle scelte individuali, al sistema di libero mercato e ai dettami dell’economia per far rifiorire quello degli affitti degli immobili a uso commerciale, artigianale e professionale: il mercato delle locazioni di immobili – è il caso di rammentare – funziona come tutti gli altri mercati di beni e servizi. E, in assenza di interferenze che ne soffocano la vitalità, assicura la concorrenza tra proprietari e operatori, spingendo i prezzi verso il basso e facendo così aumentare l’offerta e il numero di persone che può permettersi di prendere un locale in affitto o di trasferirsi velocemente in un altro. In tale ottica, è pertanto necessario liberalizzare i contratti con l’eliminazione più rapida possibile delle barriere erette dalla vetusta legge dell’equo canone (Legge 392/78), che è un serio e insormontabile ostacolo alla composizione degli opposti interessi e al raggiungimento di proficui accordi tra proprietari e conduttori. Ad essi deve essere di conseguenza assicurata piena libertà nella sottoscrizione di un contratto, nel quale possano inseriti unicamente i patti e le condizioni, anche in ordine alla durata dell’affitto e al canone, che gli stessi abbiano concordato in piena autonomia, assecondando le rispettive pretese ed esigenze. Che, è appena il caso di aggiungere, non possono invece essere composte attraverso un sistema di accordi territoriali, perfezionati in sede sindacale al pari di quanto già avviene per le locazioni abitative.

Diversamente da queste ultime, e a parte l’obiettiva difficoltà di individuare le organizzazioni sindacali che dovrebbero sedersi ai tavoli per apprestare le convenzioni, il settore non abitativo non è regolamentabile per la presenza di un coacervo di elementi e presenta una ben diversa dinamicità. È eterogeneo, articolato e complesso (basti pensare che l’affitto di un immobile per uso macelleria o pescheria è completamente differente da quello di una libreria, di un negozio di abbigliamento o una gioielleria, come quello per uno studio legale lo è da uno studio medico dentistico). È altresì interessato da un groviglio di leggi e di intralci burocratici riguardanti le diverse attività. Da aggiungere, poi, che non è affatto facile poter determinare i tipi di contratto né stabilire zone e fasce di oscillazione dei canoni, fermo restando che una previsione legislativa di accordi territoriali rafforzerebbe la forma pervasiva di controllo degli affitti già in essere. E sarebbe nondimeno incompatibile con la liberalizzazione indicata e necessaria.

Alla prospettata liberalizzazione dei contratti andrà associata una tassazione che dovrà ovviamente muoversi sui binari di una tassa piatta estremamente ridotta. Riguardo alle problematiche urbanistiche, si dovrà abbandonare l’idea della pianificazione centralizzata, pur utilizzando strumenti di rigenerazione, che si è dimostrata inconciliabilmente opposta al reale modo in cui funzionano i centri urbani, che hanno perso il loro fascino e sembrano diventati qualcosa da consegnare al passato, in favore di moderni piccoli piani, flessibili e adattabili, posti in essere e realizzati da individui e organismi privati, animati da idee e finalità quanto mai varie, che operano fuori dal quadro formale dell’intervento pubblico. A quest’ultimo, dovrà essere riservato unicamente il compito di creare un terreno favorevole allo sviluppo, oltre che delle iniziative pubbliche, dei piani prima indicati. La semplificazione e la liberalizzazione dovrà investire anche l’edilizia, ancora ingessata in un reticolato di provvedimenti e dalla burocrazia.

Aggiornato il 19 dicembre 2023 alle ore 11:07