Un Paese acefalo nella sfida del federalismo e della Ue

(Non è più il tempo di Arlecchino e Pulcinella)

Se un alieno planasse oggi in Italia, leggendo i giornali e sentendo i politici avrebbe la certezza che i nostri mali dipendono dalle regole dell’Unione europea, dalla durezza teutonica, dalla “tecnocrazia” delle regole, anche se noi siamo imbattibili in un ipotetico campionato mondiale della tecnocrazia burocratica ma l’alieno non lo sa. Le cose non stanno propriamente così. Infatti, un altro sport in cui eccelliamo è quello di dare la colpa agli altri, sempre e comunque. Questa tentazione dell’animo umano è forte, se il dissesto capita alla fine di una giornata limpida e felice, dove si è fatuamente creduto che non dovesse avere mai fine. In queste ambasce si cede alla tentazione di trovare capri espiatori che portino il peso della propria incapacità e inettitudine: proviamo a mettere in fila i fatti. Siamo entrati a fare parte del basket di sperimentazione dell’euro anche se non eravamo a posto con i parametri di Maastricht. Anzi eravamo lontani – il rapporto debito/Pil era al 122 per cento contro il 70 per cento previsto – ma l’idea che almeno uno dei parametri fosse ok ci ha consentito di entrare. Il rapporto deficit/Pil è stato determinato solo sul saldo di cassa. Rinviando così da agosto del 2000 le uscite all’anno successivo, siamo stati sotto al 3 per cento del rapporto ma in compenso abbiamo rinviato i pagamenti agli anni successivi. Nel 2001, il primo anno dell’euro, avevamo un debito di 1350 miliardi di euro e oggi, nonostante “il rigore dei controlli” del Patto di stabilità, ci avviciniamo ai 2800 miliardi, con un aumento in 23 anni di oltre il 100 per cento. Se osserviamo i bassi tassi di interesse del periodo considerato – stimabili in una media del 2 per cento – rispetto a quelli del decennio precedente figurativamente, abbiamo più che raddoppiato il debito.

Con l’aumento dei tassi di interesse promosso da una inidonea Banca centrale europea (Bce) che si muove copiando la Federal reserve system (Fed), la quale invece ha problemi totalmente diversi, abbiamo aumentato il debito e gli interessi sullo stesso, indebolendo maldestramente l’economia reale che cresce lentamente e scarica i maggiori costi di produzione sui maggiori prezzi, che indeboliscono i consumi della classe media, la quale rischia di implodere. Ma se la classe media collassa, cade l’architrave su cui poggia l’economia, come la storia insegna. L’aumento del debito è da attribuirsi in particolare alla crescita delle spese correnti per sostenere il consenso, ma non per un investimento. Paradossalmente, abbiamo aumentato il debito pubblico, peggiorando la sua qualità e efficacia. Questo è colpa nostra o della Germania e delle regole europee che noi abbiamo sistematicamente aggirato, così come i dettati costituzionali che prevedono il pareggio di bilancio? I sistemi di controllo sono stati labili, pensati da una cultura burocratica lontana anni luce dalla realtà del Paese. Così, ci siamo inventati un Patto di (in)stabilità orientato da un modello centralistico, figurato su un principio di uniformità in un Paese da secoli profondamente diverso per storia, cultura, tradizioni nei territori che lo compongono. Una irrazionalità stridente che stiamo pagando amaramente, perché “si accompagna ad una palese irresponsabilità finanziaria. Chi spende non risponde del livello complessivo di tassazione e parallelamente chi produce servizi vede spesso le leve d’azione bloccarsi per effetto del controllo sotto forma di tetti di spesa. I non-sistemi di controllo generano alti costi sociali (complessità delle procedure amministrative, ritardi sulla programmazione territoriale, scarsa trasparenza contabile) e bassi benefici” scrivevamo ne Il patto di lucidità del 2008: che facili profeti siamo stati! Ma da allora siamo pervicacemente rimasti sulla linea dell’“illucidità”, scontentando tutti: il Nord che produce, arranca e vede i trasferimenti perequativi bruciati per il consenso e per gli interessi particolari. Il problema è di fronte a tutti nella sua evidenza, ma si continua a ignorarlo. Non si riesce ancora a capire se siamo un Paese federale, come è nella realtà, o centrale come pensato dalle Amministrazioni, che non si capiscono più con quelle locali. Insomma, un Paese che sta o non sta in Europa. Abbiamo una storia piena di compromessi e di furbizia, degli Arlecchino e dei Pulcinella, che ci rende poco credibili agli occhi di chi ha principi rigidi. Chi propone l’uscita, non si rende conto che, una volta avviata, la “balcanizzazione” non si ferma più; eppure, l’abbiamo visto vicino a noi negli anni passati. Se non siamo in grado di risolvere l’assetto istituzionale a tendere del Paese, è colpa dell’Europa e della Germania o solo nostra?

Il Paese da trent’anni non produce più cultura vera ma vive di quella della rendita che brucia ricchezza ma non la crea. Il debito pubblico ne è la palese dimostrazione; il principio del merito di cui tutti parlano è spesso solo quello dell’appartenenza, così è più facile governare il sistema ed evitare i controlli. Abbiamo favorito e incentivato l’habitat naturale per il moral hazard corruttivo senza vergogna a tutti i livelli. Abbiamo avuto governi di tutti i tipi: politici, tecnici, di solidarietà nazionale, di larghe intese, del fare e del dire (più dire che fare), delle pari opportunità, delle riforme e degli slogan. Ma tutti, in modo diverso, hanno contribuito al peggioramento continuo degli equilibri sociali, economici e finanziari. Ma anche qui di che è la colpa? Abbiamo sposato, acriticamente, modelli culturali che non sono della nostra storia, che ci sono stati imposti ma non adattati. E così abbiamo perso le radici della nostra storia fatta di artigianato, di piccole imprese, di sviluppo territoriale accompagnato da principi di solidarietà diffusi. Abbiamo sposato i mantra del “creare valore per gli azionisti”, del “piccolo non è bello”, di una finanza locusta che ci ha spolpati con operazioni finanziarie (derivati in primis), ci ha impoverito e ci ha fatto vendere aziende che erano gioielli. Una cultura dell’economia fatta solo di formule matematiche, che tradisce la sua natura di scienza sociale e morale. Quindi tutti a scommettere, sempre perdenti, in una roulette governata dal croupier. Non possiamo dare la colpa alla Germania che non ha mai tradito la sua storia fatta di manifattura e anche di finanza ma governata nel proprio interesse.

La realtà è che siamo di fronte ad una crisi di uomini e di valori che hanno contribuito a metterci in questa situazione; la situazione del Paese è da manuale per le regole che descrivono nei secoli le ascese e il declino delle società. Le società non muoiono mai per morte violenta ma per suicidio, perché le élite al Governo perdono la capacità di rinnovarsi negli uomini e negli ideali e finiscono per collassare. Gli ideali del “bene comune” dei politici che ci hanno fatto uscire dal dramma del Dopoguerra sono diventati gli ideali dell’interesse personale da realizzare anche a scapito degli altri, normalizzando comportamenti illeciti che ogni giorno osserviamo ormai passivamente. Il modello culturale nella sostanza, ancora oggi, sembra non cambiare mai da quello legato prevalentemente all’occupazione del potere. La vera riforma da fare è quella morale e culturale, perché i problemi non sono mai né tecnici né economici ma sono sempre e solo problemi di uomini. Potremmo drammaticamente andare avanti nel cercare i capri espiatori; certamente lo scarso standing dei politici europei e la composizione dei gruppi parlamentari, a cui noi troppo spesso abbiamo contribuito con un criterio residuale, hanno promosso interessi degli Stati più forti e la Germania ha le sue colpe. Ma quando gli altri passano la mano, è più facile gestire il potere nel proprio interesse. D’altro canto, l’anima dei popoli è il risultato di storie millenarie che si trascinano ancora nel tempo e l’idea della supremazia tedesca ha profonde radici nella sua storia e nella sua cultura. Già Cesare nel De bello gallico, parlando dei germani diceva: “Id quod volunt credunt”. Tacito nella sua opera Germania evidenziava le caratteristiche di un popolo che già allora appariva orgoglioso ed indomito rispetto al decadente Impero romano; Georg Wilhelm Friedrich Hegel affermava che l’ultima civiltà a sopravvivere sarebbe stata la cristiano-tedesca. La Germania ha pagato a caro prezzo quest’anima con due guerre che l’hanno lacerata, ma il dolore fa riflettere e crescere senza intaccare la profondità del suo dna. Anche la Germania arranca sotto la sfida delle sanzioni derivanti dalle guerre di oligarchia politica e militare di una plutocrazia che ha cancellato quel che restava della democrazia invocata invano, come se esistesse davvero, ma è ormai soffocata dagli interessi dominanti. Rimane una minima speranza nella sfida storica di costruire una Unione fondata sulla vera solidarietà tra Paesi, che si sono sempre affrontati in battaglia. Oggi il progetto di un’Unione europea rappresenta il disegno di una aggregazione sociale più ardita, sfidante e lungimirante mai fatta nell’intera storia dell’uomo e la base per la costruzione di un ordine mondiale condiviso, di un “bene comune” verso cui tutte le nazioni dovrebbe muoversi. Oggi, sembra però che si sia più vicini al caos che a un ordine armonico: possibile che l’homo sapiens non sappia mai imparare dalla sua storia?

(*) Professore emerito dell’Università Luigi Bocconi

Aggiornato il 24 ottobre 2023 alle ore 10:38