Realizzare più valichi alpini: una scelta corretta

Proprio in questi giorni abbiamo letto una sommatoria di comunicati stampa da cui emergeva un dato davvero preoccupante. Ossia un’Italia a rischio isolamento da Est a Ovest”. Il Frejus chiuso al traffico dopo una maxifrana in Savoia, la linea ferroviaria del Brennero chiusa in Austria per colpa di una colata di terra e sassi, fra pochi giorni si avvierà la chiusura del tunnel del Monte Bianco per 15 settimane di fila. “Ma questa emergenza valichi è ancora più grave se si considera che dopo Ferragosto, a valle di un deragliamento, è andato in tilt il corridoio svizzero del Gottardo e che l’Austria incurante delle proteste dell’Italia e della Germania ha comunicato il calendario dei divieti di transito per i Tir lungo l’asse autostradale del Brennero”.

Ho già più volte ricordato che il Piano generale dei trasporti nel 1986 ribadì che l’analisi effettuata sui vincoli posti dall’arco alpino nelle relazioni tra il nostro Paese e l’intero sistema degli altri Stati dell’Europa era talmente grave da imporre, come priorità di base, proprio la realizzazione di nuovi valichi e l’ammodernamento di quelli (sempre pochi) esistenti.

Rammento che i lavori del Piano imposero la realizzazione di un nuovo tunnel ferroviario Torino-Lione, il completamento funzionale del Sempione, la realizzazione del Gottardo e del Brennero. E oggi i principali passaggi lungo l’arco alpino sono sette: Ventimiglia, Frejus, Monte Bianco, Sempione, San Gottardo, Brennero e Tarvisio. Non possiamo mettere in dubbio non solo la lungimiranza dei redattori del Piano generale dei trasporti, ma anche la forza con cui, attraverso proprio la Legge Obiettivo del 2001, si sono confermate e supportate finanziariamente queste scelte strategiche.

Non voglio assolutamente riaprire una vecchia e forse inutile polemica con coloro che all’epoca e anche ultimamente hanno ritenuto tali scelte uno spreco o un regalo per coloro che costruivano i valichi e quindi scelte indifendibili, sempre secondo loro, se sottoposte a un’analisi costi benefici corretta e imparziale. Ma mi limiterò a sollevare due distinte considerazioni:

il ruolo della “ridondanza” nel numero dei valichi;

il danno causato dal blocco del transito lungo un valico.

In merito alla “ridondanza”, penso che sia opportuno sempre ricordare che per il nostro Paese l’arco alpino rappresenta, a tutti gli effetti, un vincolo rilevante nella interazione nord-sud-nord dei vari flussi di traffico e la crisi di un transito, in assenza di una alternativa, fa aumentare in modo esponenziale i danni diretti ed indiretti. Un danno che diventa ancora più grave per le merci provenienti dal centro-sud del Paese; diventa infatti ancora più grave un blocco senza alternativa per merci provenienti da siti lontani oltre mille chilometri dal valico e costretti a trovare itinerari alternativi. Faccio questa che può sembrare una banale considerazione perché esistono tantissime ricerche (anche se non le considero tali) e tante denunce critiche da parte anche della intellighenzia universitaria sulla convenienza, o meno, a costruire più corridoi, più valichi, più occasioni ferroviarie e stradali, specialmente quando ricorrono le condizioni per amplificare al massimo la osmosi tra il nostro Paese e quelli della Unione europea, la osmosi tra i Paesi della Unione europea e il bacino del Mediterraneo.

In merito al danno causato dal blocco del transito lungo un valico, penso che sia opportuno soffermarsi un attimo sul blocco del transito lungo il traforo del Monte Bianco e leggere attentamente alcuni dati: i transiti lungo tale traforo sono al giorno 4.600, circa 1,7 milioni all’anno; ora lo stop previsto per problemi manutentivi è di tre mesi all’anno per 18 anni; quindi, un pesante vincolo annuale che vivremo fino al 2040. Questo blocco della circolazione per 72 mesi, secondo calcoli della Confindustria, produrrà un calo del Pil del 9,8 per cento in Valle d’Aosta e nell’intero nord-ovest del 5,4 per cento. Cioè, il valore stimato è di 11 miliardi di euro in 18 anni e di fronte a simili dati, sempre la Confindustria della Valle d’Aosta ma anche quella nazionale denuncia che una simile scelta produrrà automaticamente la chiusura di aziende e la perdita di posti di lavoro.

Il presidente degli industriali della Valle d’Aosta, Francesco Turcato, ha chiesto: “Perché non realizzare la seconda canna, senza interrompere il traffico e dopo intervenire su quella storica?”. Tra l’altro, dopo l’incendio del 1999, che provocò 39 morti e la chiusura del tunnel fino al 2002, una quota del pedaggio è stata accantonata e questo consente oggi già una disponibilità di un miliardo di euro.

La Francia però finora è stata contraria. Il viceministro Edoardo Rixi ha dichiarato: “Cercheremo di convincere i francesi a fare la seconda canna”. Il presidente della Regione Valle d’Aosta, Renzo Testolin, dopo la chiusura del Frejus a causa della frana di Modane, ha ribadito: “La soluzione della seconda canna del Bianco, soprattutto in situazioni di interruzioni di altri tunnel alpini, emerge ancora più necessaria rispetto a quella che poteva essere una supposizione di alcuni mesi fa”.

Ma questo atteggiamento della Francia e forse l’assenza, negli ultimi dieci anni, del nostro Paese nel dibattere questa emergenza legata al transito delle Alpi, è ancora più preoccupante se si considera il comportamento della Unione europea. A tale proposito, vorrei evidenziare pochissimi dati per far capire quale sia la dimensione macroeconomica dei transiti: Germania, Francia, Svizzera, Paesi Bassi, Belgio, Austria e Slovenia sono i principali Paesi europei collegati all’Italia attraverso i corridoi transalpini. E per tali Paesi l’attraversamento dell’arco alpino è anche un obiettivo essenziale per l’accesso al bacino del Mediterraneo.

Ora leggiamo attentamente questo dato: esclusi i prodotti petroliferi tutto l’import/export dell’Italia con il resto del mondo è pari a 266 milioni di tonnellate di merce e il 60 per cento (170 milioni di tonnellate) si svolge con i Paesi europei e deve passare attraverso l’arco alpino.

Quindi, quando nel 1986, come detto prima, nella redazione del Piano generale dei trasporti furono proposti quattro nuovi valichi, pochi forse capirono che l’Italia proponeva una scelta che superava la logica e l’interesse del singolo Paese, ma coinvolgeva gli interessi diretti e indiretti dell’intero impianto comunitario.

E quando qualcuno critica l’eccessivo coinvolgimento finanziario sempre della Unione europea nella realizzazione dei valichi (40 per cento per l’asse Torino-Lione e 50 per cento per il Brennero) non solo dimentica la dimensione e le provenienze delle quantità in transito attraverso l’arco alpino, ma scorda anche che il numero dei valichi è sempre limitato, se si considera la ricorrente possibilità di crisi di uno o di più valichi contemporaneamente. Quello che stiamo vivendo in questi giorni, quindi, è una grande occasione per capire ed apprezzare ancora una volta:

– la lungimiranza di chi quasi 40 anni fa (i lavori del Piano Generale dei Trasporti cominciarono nel 1984) pose come obiettivo chiave la realizzazione di quattro nuovi valichi;

– il ruolo della Unione europea nel garantire le adeguate coperture per portare a compimento le opere in corso sui valichi;

– la necessità di ricorrere a scelte “ridondanti” sapendo che in assenza di alternative ai transiti lungo l’arco alpino il danno è elevatissimo ed è un danno non ipotizzato ma realmente sperimentato in più occasioni;

– l’interesse nell’accedere in Europa e l’interesse dell’Europa ad accedere nel bacino del Mediterraneo rappresenta la reciproca convenienza non di un singolo Paese ma della intera Unione europea; una convenienza che non può essere soggetta a discutibili analisi costi-benefici.

(*) Tratto dalle Stanze di Ercole

Aggiornato il 03 ottobre 2023 alle ore 12:55