Il Patto di (in)stabilità e (de)crescita

La definizione del Patto di stabilità e crescita (Psc) è un faticoso rito che si compie ogni anno a partire di fatto dal 1999, sui cui parametri venne declinata la partecipazione alla sperimentazione dell’euro; oggi più che mai mostra la distanza tra la Comunità europea e il mondo reale dei Paesi a cui quel Patto dovrebbe essere applicato. La burocrazia europea continua a essere lontana dal mondo reale e dai suoi problemi che dimostra di non conoscere. E finisce per peggiorarli.

Dal momento della sua istituzione a oggi, la realtà dei fatti è profondamente cambiata. Il nuovo secolo ci ha posto di fronte a cose che si pensava fossero solo la memoria del secolo precedente; anni di guerre infinite – sia sul campo bellico che su quello economico-finanziario e sociale – hanno finito per stravolgere un fragile equilibrio su cui sembrava poter stare la governance del sistema europeo. Ora, ripensare a quei parametri fissati all’inizio significa tornare a un tempo che non esiste più, al punto che più di un Patto di stabilità sembra il suo contrario, cioè instabilità e decrescita.

In base al Psc, al momento di adottare l’euro avevano deciso di mettere in piedi quei parametri che, nonostante il mondo sia cambiato, sono rimasti colpevolmente immutati. Un deficit pubblico non superiore al 3 per cento del Pil e un debito pubblico al di sotto del 60 per cento del Pil o comunque un debito pubblico tendente al rientro.

Per entrare nell’euro e nel Patto di stabilità e crescita, sia l’Italia che la Grecia ricorrono ad artifici contabili. L’Italia, non potendo operare sul debito al 120 per cento del Pil, interviene sul deficit/Pil con la tesi che al fine del calcolo del deficit serva solo la variazione di cassa. E, a tal scopo, Carlo Azeglio Ciampi blocca tutte le uscite di cassa da giugno per raggiungere il limite previsto: le spese sarebbero state addossate all’anno successivo. La Grecia ha invece cartolarizzato le entrate da aeroporti e porti del decennio successivo. Entrate che sarebbero mancate negli anni a seguire, creando le premesse della sua debolezza finanziaria, attaccata nel 2010 dalla finanza internazionale.

Il Patto così concepito era inadeguato 30 anni fa, immaginiamoci come possa essere riproposto oggi alla luce di eventi che hanno inciso sul debito e sull’economia dei Paesi occidentali. Cominciamo nel 2001, con le Torri Gemelle. Poi con le guerre in Afghanistan e in Iraq – e la destabilizzazione del Medio Oriente – la finanza diventa dominante nell’economia. E alimenta le bolle speculative dei subprime, che nel 2008 fanno saltare Lemhan Brothers e creano la peggiore crisi del primo decennio del nuovo secolo.

Nel 2010-2012 avviene l’attacco della finanza all’euro con la Grecia, il Portogallo, l’Irlanda, la Spagna e l’Italia sotto scacco. Il debito, grazie alle manipolazioni dello spread, si alza senza mostrare un rientro accettabile. Quando sembrava che saremmo arrivati a una sistemazione, abbiamo avuto il Covid e la guerra in Ucraina, che con le sanzioni alla Russia ha penalizzato l’Europa a vantaggio degli Usa.

La situazione adesso è aggravata dalla colpevole cecità della Banca centrale europea e di Christine Lagarde, che sembra sempre più un clone della Fed senza una sua indispensabile autonomia tale da capire quanto le cause dell’inflazione negli Usa siano profondamente diverse da quelle originate in Europa. L’inflazione negli Stati Uniti dipende da un eccesso di carta moneta stampata, che ha generato una crescita della domanda. La manovra sui tassi di interesse può essere giustificata, ma il rischio è che si trasformi in recessione come sta già mostrando di essere. In Europa l’inflazione è stata generata dalle sanzioni sulla Russia, che hanno provocato un aumento dei prezzi delle materie energetiche. Quindi con ripercussioni sui costi di produzione e sui prezzi di vendita. Ma la manovra sui tassi di interesse ha effetti depressivi sull’economia, che portano alla riduzione del Pil come in effetti si sta verificando. In Europa e in Italia, poi, l’aumento dei tassi di interesse ha conseguenze sui rendimenti crescenti dei buoni del tesoro, che aumentano il debito. Perciò è una situazione antistorica e frutto di una colpevole sudditanza verso l’imitazione delle politiche Usa che fanno diventare Lagarde un clone della Fed. In queste condizioni, la riesumazione del Psc diventa una misura antistorica ed estremamente pericolosa per l’economia del nostro Paese. E, come tale, la manovra è da condannare per l’evidente inadeguatezza a risolvere il problema.

Si potrebbe fare in modo di anestetizzare il Patto sulle spese per investimenti assolutamente necessari per il Paese e per il rilancio dell’economia. E per provare a evitare la drammatica crescita del debito pubblico dovuto, in gran parte, alle spese correnti usate dalla politica per acquisire consenso. Ma con gravi danni sugli equilibri finanziari ed economici del Paese.

Tutta questa tendenza a generare una governance contraria alla realtà trova le sue cause nella prevalenza della burocrazia sulle scelte di sviluppo del Paese e dell’Europa in genere. La burocrazia ottusa e staccata dal mondo reale è la causa profonda del dissesto della Comunità europea, in cui i vari Paesi – privilegiando gli interessi interni – hanno favorito l’invio nella Comunità europea di figure di terza e quarta linea, incapaci di governare la burocrazia che in questa mancanza di leadership europea ha trovato campo libero, per affermare la sua dominanza.

Di fatto, la governance dell’Unione europea si è burocratizzata, esattamente come aveva criticato Max Weber sul rischio di una razionalizzazione delle procedure che prendono il sopravvento sulle persone. La burocrazia è appunto, per Weber, una forma particolarmente pervasiva e per certi aspetti pericolosa di tale processo di razionalizzazione, giacché essa implica direttamente la gestione non tanto di oggetti, macchine o procedure, quanto piuttosto di esseri umani, i quali devono essere organizzati per conseguire finalità specifiche.

L’apparato giuridico governa l’istituzione ma a sua volta non è governato. Ed evidenzia la mancanza di modelli culturali – e di conoscenza sia della storia che della politica – nelle persone che dovrebbero guidare la governance, non subirla.

(*) Professore emerito dell’Università Luigi Bocconi

Aggiornato il 18 settembre 2023 alle ore 12:53