In qualunque riflessione o dibattito sull’economia italiana non è possibile non citare il debito pubblico. Contenere la spesa dello Stato, infatti, è un’esigenza tanto fondamentale quanto limitante per l’attuazione di politiche sociali la cui domanda è alta soprattutto in tempi di crisi. Il macigno del debito porta i partiti, una volta al Governo, a rivedere le proposte fatte in campagna elettorale per adattarle alla effettiva disponibilità economica italiana. La politica, di conseguenza, tende a sentirsi in parte privata del suo potere decisionale e il malcontento si estende anche ai cittadini, i quali percepiscono che i vincoli economici siano, talvolta, più rilevanti del volere popolare espresso alle urne.
La gestione della spesa pubblica è un argomento di primaria importanza persino per Paesi che hanno un rapporto tra debito e Pil molto inferiore al nostro. È il caso, ad esempio, della Svizzera, in cui nel 2001 è stato introdotto il “freno all’indebitamento”, una misura introdotta per evitare deficit (differenza tra entrate e uscite dello Stato) troppo elevati e che trova tutt’ora largo consenso, nonostante nel 2022 il tasso d’indebitamento misurato secondo i criteri di Maastricht (comprensivo, quindi, di quanto è dovuto dalla Confederazione, dai Cantoni e dai Comuni) fosse appena del 27,6 per cento del Pil, contro il circa 145 per cento dell’Italia. Eppure, esiste un Paese che dimostra come anche un debito elevato possa non rappresentare un motivo di preoccupazione per gli investitori.
Il Giappone, infatti, ha il debito pubblico più alto del mondo, pari al 258 per cento del suo Pil. Nonostante tale dato, l’economia nipponica non sembra essere vicina al default e gli interessi che paga ai suoi creditori rimangono bassi. Questo significa, dunque, che le preoccupazioni sul debito sono infondate e che la politica italiana può gestire la spesa pubblica in modo molto più elastico di quanto faccia attualmente? Non è esattamente così. La sostenibilità del debito giapponese, infatti, è favorita da alcune caratteristiche della sua economia.
In primo luogo, il suo debito è detenuto in gran parte dalla Banca centrale e da investitori locali, quindi è denominato in valuta nazionale, lo yen giapponese, e non è esposto alle fluttuazioni di altre monete. La Banca centrale, inoltre, nei decenni ha continuato a finanziare la spesa pubblica nipponica erogando liquidità con tassi di interesse molto bassi. Una seconda ragione che spiega la sostenibilità di un indebitamento così alto è che lo Stato giapponese possiede un patrimonio consistente per garantire la sua posizione debitoria. Il Giappone, secondo i calcoli dell’Osservatorio dei conti pubblici italiani, è titolare di beni immobiliari pari all’intero ammontare del suo debito.
Teoricamente, quindi, potrebbe rimborsare tutti i suoi creditori in breve tempo, se ritenesse di farlo. Un’ulteriore caratteristica del Giappone che ne rende sostenibile il debito è che i suoi conti pubblici sono gestiti con meticolosa prudenza, al contrario di quanto potrebbe far pensare il dato sull’indebitamento. Con l’eccezione degli anni della crisi pandemica, infatti, il Governo nipponico da molti anni attua politiche di contenimento del deficit, anche abbassando la spesa pensionistica. Per queste ragioni, parlare di “modello Giappone” e citare il Paese asiatico per sostenere la tesi secondo la quale il debito pubblico non sia un fattore importante per l’economia di uno Stato è improprio quando ci si riferisce a un’economia con caratteristiche diverse.
Aggiornato il 15 settembre 2023 alle ore 09:38