Pochi giorni fa ho ricordato, utilizzando dei dati forniti dall’economista Gianfranco Polillo, come sia cambiato il rapporto tra i Paesi del G7 (Canada, Francia, Germania, Italia, Giappone, Regno Unito, Stati Uniti) e quelli del Brics (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica). In particolare, agli inizi degli anni ‘90, quando la globalizzazione era ancora agli esordi, il peso dei Paesi del G7 sull’economia mondiale era pari al 50,4 per cento e quello dei Brics al 16,8 per cento. Alla fine di questo anno i relativi rapporti, secondo le previsioni del Fondo monetario internazionale, saranno invece pari al 29,89 e al 32,12 per cento.

Nasce spontanea una domanda: come potranno cambiare le linee tendenziali della logistica, come potrà modificarsi il peso che, nel sistema mondiale degli scambi, riveste almeno due grandi teatri della movimentazione delle merci e cioè il Mare del Nord ed il Bacino del Mediterraneo? Da molto tempo, almeno da quando il commissario Karel van Miert volle approfondire l’articolato sistema delle reti Ten-T, è nata quasi spontanea l’esigenza di dare vita a una interazione funzionale tra la portualità mediterranea e quella del mare del nord. In fondo, i due corridoi Rotterdam-Genova e Baltico-Adriatico testimoniano una chiara volontà di annullare una inutile concorrenza tra le due realtà geografiche e di costruire contemporaneamente una offerta congiunta verso traffici e verso realtà produttive che sicuramente avrebbero invertito quelle tendenze storiche che per molto tempo abbiamo ritenuto non modificabili.

Ora, se questo teatro ha subito cambiamenti così repentini, come stiamo cercando – con la nostra offerta portuale e con i valichi che consentono la interazione terrestre tra l’area settentrionale e l’area meridionale dell’Europa – di evitare una reale marginalizzazione dell’intero sistema logistico comunitario? Senza dubbio, il Terzo Valico dei Giovi, il Gottardo e il Brennero rappresentano una condizione obbligata per arricchire davvero le potenzialità di un sistema produttivo, quello comunitario, che altrimenti subirebbe, in poco tempo, una crisi nei processi di ingresso e di uscita delle merci dall’intero contesto comunitario.

Escluso il Gottardo, gli altri due tunnel saranno disponibili fra sei-otto anni e quindi, nel frattempo, la offerta portuale rimarrà identica al passato ma con una variazione legata al cambiamento sostanziale delle dimensioni produttive, delle dimensioni dei mercati dell’intero pianeta. Quindi, dovremo affrontare questo macro-teatro economico che in soli venti anni ha modificato riferimenti che ritenevamo immodificabili senza poter disporre, entro il prossimo decennio, di una articolazione infrastrutturale sovranazionale capace di rispondere, in modo adeguato, a questa che non so se chiamare evoluzione o involuzione.

Questo cambiamento dei riferimenti classici, sia delle provenienze che degli ambiti della produzione, non può essere risolto solo adeguando le nostre infrastrutture portuali, ottimizzando il rapporto tra porto e retro-porto, tra impianto logistico ed aree della produzione e della commercializzazione interna. Perché queste iniziative, senza dubbio necessarie ed essenziali, non risolvono una tematica chiave di ciò che la portualità del futuro dovrà essere. E cioè la capacità di gestione degli impianti logistici, la capacità manageriale dei vari gestori di riunirsi per ottimizzare le economie di scala, la capacità di unirsi per evitare false e perdenti concorrenzialità, la capacità di unirsi per offrire non singoli hub logistici ma una sommatoria di hub tra loro interagenti.

Realizzare adeguamenti portuali, creando nuovi moli e aumentando sia i bacini di evoluzione che la profondità dei fondali, realizzare segmenti ferroviari tra porti e interporti, arricchire di aree di stoccaggio e di manipolazione delle merci i vari hub portuali, sono tutte iniziative, a mio avviso, facili perché legate solo a due condizioni:

– la disponibilità delle risorse;

– la attuazione in tempi certi delle scelte.

Senza dubbio sono condizioni non facili e non semplici, ma sono condizioni “possibili” da rispettare e non legate alla capacità manageriale e strategica di chi è preposto alla gestione sistematica di un nodo o di più nodi logistici. Purtroppo, la “capacità manageriale” diventa una condizione non solo non facile da reperire, ma anche difficile da costruire. E devo, purtroppo, ammettere che anche il ricorso alle riforme, a norme mirate al rilancio della nostra portualità per essere incisive devono, necessariamente, avere un approccio diverso da quello finora invocato; infatti, ogni volta che si è tentato di dare vita a una riforma della nostra offerta portuale il risultato è stato mediocre. A tal proposito, l’esperienza della Legge 84/94 che disciplina l’ordinamento e le attività portuali per adeguarli agli obiettivi del Piano generale dei trasporti, testimonia che, dopo un lungo dibattito nelle commissioni parlamentari competenti, dopo un pieno convincimento dell’intero schieramento parlamentare di pervenire a una riforma incisiva, ci si è fermati su un articolo, il 18 bis della Legge 84/94 (vedi qui), che invoca una “autonomia” praticamente inutile o, addirittura, ridicola sia per la dimensione delle risorse assegnate alle attività delle Autorità portuali (appena l’1 per cento, cioè appena 90 milioni di euro), sia per la folle procedura per consentire l’utilizzo delle stesse.

Ma l’elemento più antitetico e, soprattutto, più lontano dall’assetto geo-economico che, come dicevo prima, stiamo ormai vivendo in questo ultimo periodo, è il forte convincimento del ruolo determinante e dominante della componentepubblica” nella gestione della portualità.

Lo Stato dà in concessione oltre 6mila chilometri di rete autostradale e non ha il coraggio di dare in concessione a privati, a Società per azioni, la nostra portualità. Mi chiedo cosa sia scattato, nel tempo, su questo innamoramento del pubblico nel controllo di un hub logistico.

Spesso si pensa che le rilevanti risorse generate dell’imposta sul valore aggiunto dovuta sull’importazione delle merci introdotte nel territorio nazionale per il tramite di ciascun porto potessero, in caso di privatizzazione, venire meno; spesso si pensa che dare a privati un impianto portuale significa perdere il controllo delle porte di accesso al Paese. Questi comportamenti nascondono, purtroppo, solo la paura di perdere, da parte dello Stato, spazi di “sotto-governo” che, come ho ricordato pochi giorni fa, ha come risultato un tragico dato: da oltre venti anni i nostri porti movimentano solo e sempre 450 milioni di tonnellate e 10 milioni di container.

Il Governo, e in particolare tre Dicasteri (il Ministero dell’Economia e delle Finanze, il Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti e il Ministero delle Imprese e del Made in Italy) dovrebbero, con la massima urgenza, produrre una norma che privatizzi subito i seguenti sistemi portuali:

– sistema dei porti di Savona, Genova e La Spezia con relativi impiantii interportuali;

– sistema dei porti di Savona e Civitavecchia con relativi impianti interportuali;

– sistema dei porti di Napoli e Salerno con relativi impianti interportuali;

– sistema dei porti di Gioia Tauro, Reggio Calabria e Messina con relativi impianti interportuali;

– sistema portuale di Catania, Augusta e Pozzallo con relativi impianti interportuali;

– sistema portuale di Palermo e Trapani con relativi impianti interportuali;

– sistema portuale di Bari-Taranto-Brindisi con relativi impianti interportuali;

– sistema portuale di Ortona-Ancona con relativi impianti interportuali;

– sistema portuale di Ravenna-Venezia-Trieste con relativi impianti interportuali;

– sistema portuale di Cagliari e relativi impianti interportuali.

Dieci Società per azioni, queste, che potrebbero ridursi ulteriormente se fra loro si istaurassero delle misurabili convergenze nella gestione organica di determinate provenienze e di determinate uscite di specifiche filiere merceologiche. Cerchiamo di ragionare o di tentare di ragionare in questo modo. Ed evitiamo di ricadere nella stessa trappola del 1994, quando si partì con finalità davvero innovative e si partorì solo una “norma”; cioè di qualcosa che, come fu detto dallo stesso relatore, era l’inizio di una riforma. Purtroppo, è rimasto solo un inizio. Non si convinca di una simile esigenza solo il Governo ma anche il Parlamento.

(*) Tratto dalle Stanze di Ercole

Aggiornato il 15 settembre 2023 alle ore 13:17