Il debito pubblico italiano: storia, genesi, cause e problemi

Una via di soluzione?

Per analizzare la dinamica del debito pubblico e capire meglio i suoi andamenti e in quale misura siano dipesi da fattori esterni non controllabili e da quali fattori interni, come le politiche allestite per raccolta di consenso che ha fatto esplodere la spesa corrente, è necessario vedere la storia nei grafici allegati (vedi qui).

In particolare, i grafici coprono il periodo storico dall’Unità d’Italia a oggi. Come si può vedere, gli andamenti sono legati – fino alla fine della Seconda guerra mondiale – all’effetto di un lungo periodo bellico, ma andiamo per ordine storico. Il Paese durante il percorso dell’Unità d’Italia affronta le spese di compensazione tra Nord e Sud. Tra il 1861 e il 1870 il debito sul Pil passò dal 45 per cento al 96 per cento, per poi stabilizzarsi al 70 per cento ma negli anni successivi salì al 95 per cento. Erano i costi della ricostruzione dell’unità di un Paese con due storie profondamente diverse: il Sud, per certi aspetti, perse risorse a favore del Nord.

Come si vede nel grafico, la posizione del debito salì a ridosso del nuovo secolo per raggiungere il 120 per cento del Pil e poi decrescere all’80 per cento prima della Grande Guerra. La partecipazione al conflitto bellico fu devastante per le finanze del Regno, portando il debito al 160 per cento alla fine dello scontro armato e all’avvio nei primi anni Venti del periodo fascista, che adottò una politica monetaria di difesa della lira. La quotazione della lira venne fissata alla cosiddetta quota 90, cioè una sterlina era l’equivalente di 90 lire. Le scelte monetarie furono di favorire le importazioni. Inoltre, venne avviato in quel periodo un ampio ricorso alla produzione interna e alla raccolta di risparmi, per difendere la lira che veniva attaccata sui mercati finanziari internazionali, scontrandosi così per la prima volta con le dinamiche manipolatorie dei mercati finanziari.

La Seconda guerra mondiale lasciò il Paese in una drammatica situazione di sconvolgimento sociale, politico – il passaggio dalla Monarchia alla Repubblica – e strutturale per gli immensi danni alle “impalcature” edilizie e produttive del Paese. Il Piano Marshall ma soprattutto la potente voglia di riscatto del Paese portò il debito dal 100 per cento del Pil al 35 per cento nel 1961. Erano passati solo 17 anni dalla fine della guerra. L’Italia si preparava a una nuova rinascita economica e monetaria. Il dollaro era scambiato a 625 lire, il petrolio costava 4 dollari al barile e l’inflazione era sotto il 4 per cento. La classe media si arricchiva e metteva – come si diceva in campagna – il fieno in cascina, per creare la più grande ricchezza privata al mondo così come è ancora oggi. Ma al contempo si preparava la rivoluzione finanziaria che, nel 1971, avrebbe creato la prima destabilizzazione monetaria del Dopoguerra.

In quell’anno Richard Nixon dichiara la fine del “gold exchange standard” e la convertibilità del dollaro in oro; la rivoluzione finanziaria di cui continuiamo a sentire e subire gli effetti ancora oggi fa saltare gli equilibri monetari ed economici del Paese, per una crisi indotta dagli Usa. Per mantenere la stabilità del dollaro, gli Stati Uniti inventano il petrodollaro e il regime Swift (entrambi nel 1973). Sul paese si abbatte una tempesta monetaria e inflattiva che porta il dollaro a valere 2350 lire, il petrolio a 40 dollari al barile e l’inflazione al 24 per cento. Il tesoro si svenerà per coprire il debito indotto emettendo Bot al 20 per cento per potere favorire la sua collocazione. Gli italiani pensano di essere diventati ricchi, mentre si stanno progressivamente indebitando, mettendosi nelle mani di una finanza che diventerà sempre più predatoria.

Il debito sul Pil passa dal 35 per cento del 1971 al 115 per cento del 1991. Possiamo dire che una quota del debito pubblico è stata determinata dalla politica monetaria che ci è stata imposta. Forse, potremmo quantificare in un 25 per cento la parte di debito generata a nostro sfavore. E, se avessimo la forza politica di dibattere sul tema, potremmo già dire che una quota di quel debito non dovrebbe essere considerata ai fini di una corretta determinazione del rapporto debito/Pil, ma al netto del debito finanziario indotto.

Non abbiamo ancora ripreso i sensi dal dramma del petrodollaro che, nel 1991, si abbatte una seconda ondata speculativa sul Paese per effetto dell’attacco di George Soros alla lira che svena Bankitalia.  Abbiamo il secondo shock monetario, che porta il Governo Amato al prelievo notturno sui conti correnti degli italiani per fare fronte al gioco di Soros. Al fine di ridurre l’indebitamento, per rincorrere i parametri di Maastricht, si svendono sul Britannia le aziende di Stato per fare cassa. E così comincia la corsa al debito pubblico. Nel frattempo, la politica sempre più indebolita ricorre alla spesa sociale, per ridurre il malcontento. Si creano le pensioni baby per la gioia di tanti che percepiscono una certa somma con pochissimo lavoro. Sulle generazioni future graveranno le spese per il rimborso e il rischio di tassi di interesse crescente.

La sperimentazione dell’euro nel 2000 ci fa ben sperare per uscire dal tunnel del debito. Quasi subito il periodo bellico dell’inizio del nuovo secolo, e la finanza senza limiti imposta dalla Fed che crea carta moneta dal nulla e la distribuisce a tasso prossimo allo zero, prepara il dramma di Lehman Brothers nel 2008. Gli Usa vengono scossi sulla loro strategia di puntare tutto sulla finanza e delocalizzare in Cina la manifattura, la cui mancanza li sta strangolando. Il ballo della finanza viene avviato senza freni e, nel 2011, il Paese subisce l’ennesimo attacco monetario con un sistema predatorio che attacca il rating e innalza lo spread. Il debito in tre anni passa da 1830 mld/euro a 2130 mld/euro e di conseguenza il debito raggiunge i 133 per cento del Pil. Anche in questo caso, la reale dimensione del debito pubblico dovrebbe essere considerata al netto dell’attacco della finanza priva di ogni fondamento scientifico.

Ora, siamo a raccattare quello che abbiamo seminato e quello che ci hanno scaraventato addosso con i problemi di riduzione del debito. Abbiamo un sistema di controllo contabile che fa acqua da tutte le parti. Ma se non abbiamo sotto controllo la spesa, diventa difficile attaccarla e questo è un problema che sta portando allo scontro il Governo e la Corte dei conti. È del tutto evidente che non possiamo risolvere la questione con lo stesso modello culturale che l’ha creato. Qui servono riforme serie e non di facciata. È necessario italianizzare il debito come ha fatto il Giappone, portando la maggiore parte del debito in mani italiane e sottraendolo all’incontrollabile speculazione finanziaria, da cui dovremmo difenderci con l’aiuto di un’Europa che sembra la gabbia dei polli di Renzo. Ma senza una vera azione di controllo della finanza, siamo destinati a scontrarci con il caos.

Infine, possiamo proporre una soluzione innovativa basata sulla possibilità di rendere appetibili i nostri Buoni del tesoro legando alcune emissioni particolari a una percentuale di oro definita. Potrebbe essere una quota del 20 per cento di buoni legati parzialmente all’oro. Noi siamo tra i Paesi a maggiore deposito di oro, ma metà è nelle riserve interne e metà è depositato all’estero negli Usa presso la Fed. Si potrebbero emettere, così, Buoni del tesoro vincolati al 20 per cento all’oro depositato presso la Fed come maggiore garanzia di solvibilità, rispetto a quella in discussione del nostro Paese. I buoni del tesoro legati all’oro presso la Fed potrebbero godere di un rating simile alla tripla “A” ed essere collocati facilmente sul mercato finanziario. E certamente più collocabili anche sul mercato interno.

Sono proposte, ma se non si scelgono vie alternative rimaniamo sudditi sottomessi a una finanza di rapina, che ci punisce indebitamente come possiamo vedere dal rating attribuitoci prossimo alla tripla “B”, pur avendo una struttura economica e finanziaria delle famiglie italiane di gran lunga migliore di quella degli Usa, in cui il debito familiare è al 100 per cento del Pil. Come è al 7 per cento del Pil il debito degli studenti. Ma come si spiega che gli Usa alle prese con un debito monstre abbiano la tripla “A” noi siamo all’opposto? Se proviamo a rispondere a questa domanda, forse, qualche via di uscita dal caos imperante riusciremo a vederla.

(*) Professore emerito dell’Università Luigi Bocconi

Aggiornato il 07 luglio 2023 alle ore 10:55