Storia cronologica del debito pubblico italiano

Nella sua storia, nonostante le dimensioni della sua economia ed il suo avanzo primario, l’Italia è stata sempre limitata, se non penalizzata, da una crescita economica difficoltosa e dal suo mastodontico debito pubblico, che ha inciso sulla relativa spesa per interessi.

Il primo evento significativo nella crescita del debito pubblico italiano avvenne nel 1897, a causa della crisi economica che si manifestò alla fine dell’Ottocento, il quale raggiunse il 117 per cento del Prodotto Interno Lordo (Pil) e questo accadde nonostante che l’Italia avesse un saldo primario positivo.
In seguito, grazie alle politiche economiche di Giovanni Giolitti, il debito nostrano scese al 70 per cento del Pil, per poi tornare a crescere, con due sostanziosi rialzi, avvenuti durante i due conflitti mondiali, a causa delle spese sostenute per lo sforzo bellico.

Infatti, nel primo dopoguerra, il rapporto debito/Pil passò dal 71 per cento del 1913 al 99 per cento del 1918, per continuare ulteriormente la sua crescita durante il tumultuoso “biennio rosso” (1919-1920), raggiungendo il massimo storico del 160 per cento durante il 1920.
Questo pesante incremento del debito destabilizzò l’economia italiana e solamente con grandi sforzi si riuscì a ridurlo, arrivando al 142 per cento nel 1924, ma solamente con la decisione politica di cancellare i debiti di guerra si fu in grado di superare la rilevante crisi finanziaria pubblica di allora.

Nel periodo successivo alla nefasta crisi del 1929 e quindi alla conseguente “Grande Depressione” e più precisamente nel 1934, il debito pubblico si innalzò fino all’88 per cento del Pil, nonostante che l’Italia avesse mantenuto una spesa costante in termini nominali e avesse attuato una significativa diminuzione delle entrate.
Al dunque, solamente nella seconda metà degli anni Trenta, il Regno d’Italia riuscì ad abbassare il livello del suo debito al 79 per cento del prodotto interno lordo, ovviamente anche e soprattutto grazie al sostenuto sviluppo della sua economia, benché fossero aumentate le spese previste per l’impresa bellica di allora.
Proprio l’impegno militare insieme al relativo investimento economico, determinarono, successivamente, l’innalzamento del debito, come accadde nel 1943 con il raggiungimento del 108 per cento.

Nel 1946, grazie soprattutto alla presenza di una elevata inflazione ci fu una discesa del debito, fino a raggiungere il 40 per cento del Pil. Invero, negli anni successivi alla Seconda guerra mondiale, con la suddetta inflazione, il debito scese fino a sfiorare il 20 per cento del Pil. Con l’arrivo degli anni Sessanta e quindi con l’emergere del cosiddetto “boom economico”, l’economia italiana sviluppò una crescita che si stabilizzò di media al 5 per cento annuo (senza che si fosse manifestato alcun processo inflazionistico, consentendo una decrescita del debito al 33 per cento del Pil).

La spiegazione della succitata decrescita del debito si ricava da diversi fattori, prima di tutto perché il costo del debito era inferiore al tasso di crescita economica e poi perché la politica fiscale fu improntata sul rigoroso equilibrio, grazie sia al contingente boom economico sia a politiche economiche e fiscali assennate.
Perciò, secondo un elementare principio economico, se vi è un incremento dell’economia, la crescita del debito pubblico non costituisce un problema, in quanto esso può essere ripagato senza alcuna difficoltà. Al contrario, quando, invece, vi è una economia in decrescita dal punto di vista nominale, arrivando ad essere più bassa dello stesso tasso di interesse nominale in rapporto al debito, il debito tenderà ad aumentare.

Durante quasi tutta la decade degli anni Sessanta la crescita economica si stabilizzò, fin quando già sul finire, ossia nel 1968, il rapporto debito/Pil aumentò fino ad arrivare al 41 per cento, in un contesto economico-finanziario compromesso dalle prodromiche tensioni nazionali ed internazionali. La situazione peggiorò nel periodo temporale cha va dal 1968 al 1983, durante il quale, nonostante ci fosse stata una crescita economica rilevante (intorno al 3 per cento medio annuo del Pil), la drammatica crisi petrolifera, manifestatasi nel 1973, causò un importante squilibrio per le finanze pubbliche italiane, grazie ad un’inflazione irrefrenabile, che le stesse politiche monetarie dei nostri governati di allora, con la loro svalutazione della lira, contribuirono ad incrementare.

L’Italia fu vittima di uno storico carovita, che dall’aumento del 5,2 per cento del 1972 crebbe ulteriormente nel 1974 arrivando al 19 per cento, per poi stabilizzarsi vicino al 15 per cento per quasi tutti gli anni Settanta, per poi rialzarsi ulteriormente fino a toccare il pernicioso 21,7 per cento. Al riguardo, è necessario rammentare che durante gli anni Settanta ci fu una crescita della spesa inerente al welfare, il che portò ad un incremento della spesa pubblica, che in combinazione con la stagnazione del flusso di entrate fiscale, determinarono un connubio fatale per l’economia dell’epoca, causando la chiusura dei bilanci in un deficit alquanto critico, arrivando a superare il triplo del limite massimo consentito dal Trattato di Maastricht, ossia il 10 per cento.

Dal 1975 fino al 1981, la Banca d’Italia garantì il buon esito delle aste di Stato, in quanto si impegnò a stampare moneta, con la quale comprava i titoli di Stato rimasti invenduti, in modo tale da evitare che ci fosse l’aumento del debito pubblico, scaricandolo sulla Lira, al punto da determinarne una elevata svalutazione, considerando che si svalutò del 40 per cento rispetto al dollaro. Nel 1981, negli Usa, Paul Volker, governatore della banca centrale statunitense (Federal Reserve), per contrastare in modo radicale l’inflazione, decise di applicare una significativa stretta sui tassi d’interesse del dollaro, passando dal 9 per cento al quasi 19 per cento, che se da un lato determinò la conseguenza di ridurre il carovita che scese al 3,2 per cento nel 1983, dall’altro lato innescò una mini recessione e causò anche un effetto domino, in quanto tutte le altre banche centrali mondiali, compresa la Banca d’Italia, furono costrette a inseguire la politica monetaria della Federal Reserve.

Sempre nel 1981, il ministro del Tesoro Beniamino Andreatta inviò una raccomandata al governatore della Banca d’Italia di allora, Azeglio Ciampi, con cui lo invitava a non acquistare più i titoli di Stato italiani rimasti invenduti, applicando da quel momento in poi una politica monetaria indipendente, con l’intento di fare in modo che l’Italia potesse restare all’interno del Sistema Monetario Europeo (Sme), creato nel 1979, il quale sarebbe stato il prodromo della futura unione monetaria (l’Euro).

Nel 1982, già si videro le prime terribili conseguenze di questo processo monetario, con l’aumento dell’inflazione e la riduzione del potere di acquisto degli stipendi, dei risparmi e delle pensioni. Inoltre, i tassi di interesse andarono oltre il 25 per cento e lo spread tra i titoli decennali di Stato italiani e quelli della Repubblica Federale tedesca raggiunse il record di 1175 punti di base.

Negli anni Ottanta, nonostante ci fosse un periodo di sostenuta crescita economica, peraltro con un riscontrato aumento delle entrate, il debito pubblico s’innalzò passando dal 60 per cento del Pil nel 1980 al 100 per cento del 1990, con un’inflazione del 10 per cento. Dulcis in fundo, il 5 gennaio del 1990, il governatore della Banca d’Italia Azeglio Ciampi, prese l’inspiegabile decisione di far transitare la lira dalla banda larga alla banda stretta all’interno del Sistema Monetario Europeo (Sme), esponendo in tal modo la Lira ad attacchi speculativi, che il 16 settembre del 1992 (il famoso “mercoledì nero”) raggiunsero il loro apice con quello cinico e violento compiuto dal finanziere George Soros, causando una temporanea uscita della Sterlina e della Lira dallo Sme.

A questo punto, la Banca d’Italia, per fronteggiare il suddetto aggressivo, nonché pericolosissimo, attacco speculativo, svalutò in modo brusco la Lira, che in rapporto al dollaro si svalutò del 35 per cento e in rapporto al Marco si svalutò del 24 per cento, facendo “bruciare” le riserve valutarie dello Stato italiano per 50 mila miliardi di Lire, corrispondenti ad oltre 25 miliardi di euro attuali.

Inoltre, mentre nel triennio 1990/1992 la Bundesbank aveva iniziato ad alzare i tassi per contrastare l’aumento dell’inflazione causata dalla riunificazione delle due Germanie e nel 1992 il costo del suo denaro era cresciuto fino all’8 per cento, Ciampi, sempre nel 1992, alzò i tassi di interesse con l’obiettivo di stabilizzare il cambio con la moneta tedesca e impedire sia che l’Italia uscisse dallo Sme sia che i capitali italiani defluissero via verso la Germania, ma fece ciò commettendo un imperdonabile errore, che per un governatore della Banca d’Italia fu tanto inconsueto quanto deleterio per le nostre finanze, ossia espresse le sue doglianze per aver aumentato il suddetto tasso d’interesse, innescando automaticamente una sconcertante sfiducia nei mercati che di conseguenza incrementarono la loro fuga, spaventati anche dal fatto che il Governo Amato, il 10 luglio dello stesso anno, impose un prelievo forzoso, nonché a sorpresa, del 6 per mille dai conti correnti degli italiani.

Al postutto, nel 1994, il debito pubblico toccò il 124 per cento del Pil, con un progressivo ed esponenziale aumento che lo ha portato ad aumentare fino a 2762 miliardi di euro, pari a circa il 145 per cento del Pil nel mese di dicembre del 2022.

Aggiornato il 22 marzo 2023 alle ore 12:49