Il 2022 si è andato connotando come anno anomalo per l’economia italiana, nel quale le spinte di ripresa post covid hanno resistito e, ancor più, brillato, a dispetto dell’inflazione generale e di quella relativa al settore dell’energia, entrambe indotte dall’insensata guerra di Putin.
Fra gli elementi di maggior importanza per spiegare tale successo – l’Italia ha fatto registrare la miglior performance economica di tutto il vecchio continente – e per sperare di prolungarne, almeno in parte, i benefici nell’anno che verrà, risulta essere il “Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (Pnrr)” ossia il programma italiano che è parte integrante di Next Generation Eu, l’azione di politica generale messa a punto dall’Unione Europea per il rilancio economico degli stati membri dopo la pandemia.
Di tutto ciò, se ne è parlato al convegno dell’I-Com (Istituto per la Competitività) che, nella bella cornice del Parlamento Europeo a Roma, ha presentato il report relativo al primo anno di applicazione del Piano.
Com’è noto il Pnrr è articolato su diverse linee d’azione che a loro volta sono suddivise in numerosi obiettivi (targets), articolati in differenti punti (Milestones). L’8 novembre scorso l’Italia ha ricevuto la seconda rata da 21 miliardi di euro (10 miliardi in sovvenzioni e 11 miliardi in prestiti). Attualmente risultano essere conseguite il 18 per cento (42 riforme e 53 investimenti) dei Milestones e Targets fissati nel Pnrr nazionale. L’Italia risulta essere il paese europeo che, per ora, ha ricevuto la somma più ingente, circa 66,8 miliardi di euro (35 per cento del totale rispetto allo scenario base), in un contesto di elevata produttività e con un rilevante e persistente stimolo nel quadriennio 2021-2024 (si stima che nel 2024 il tasso di crescita del nostro Pil mostrerà un incremento del 3 per cento). Quindi, almeno in questa prima fase, in modo inaspettato, certamente rassicurante, il Paese è ben posizionato sia nel rispetto dei targets che nei confronti degli altri partners europei. E tale convincente prova è stata altresì riconosciuta dall’Ue, che solitamente è piuttosto critica e bacchettona nei confronti dell’Italia.
La questione fondamentale è se le amministrazioni pubbliche, specificatamente i comuni, che sono i primi, diretti destinatari dei fondi, siano in grado di tenere il passo con gli impegni di spesa che si delineano da qui ai prossimi due o tre semestri. È infatti in quel torno di tempo che verranno a maturazione i più importanti progetti e, da parte delle pubbliche amministrazioni, si affronteranno gli impegni più gravosi. La questione è di duplice rischiosità e valenza. C’è infatti da considerare che i finanziamenti europei assegnati all’Italia non sono a fondo perduto, ma vengono progressivamente conferiti man mano che i progetti approvati dalle varie amministrazioni sono attivati e realizzati, con una reportistica inviata a Bruxelles, che dà conto dei risultati specifici. E per fare tutto questo c’è un timing preciso che non lascia spazio ai noti ritardi, indecisioni ed errori delle nostre amministrazioni pubbliche. Si pensi, solo per fare un esempio su i tanti possibili, alla lentezza nel concedere autorizzazioni a procedere o l’accettazione della Via (valutazione di impatto ambientale), senza le quali, evidentemente, non si può dare luogo alla realizzazione di moltissimi progetti. E se il tempo scorre invano, i soldi rimangono e/o rientrano a Bruxelles.
Però, se l’Italia riuscisse ad applicare l’intero pacchetto del Pnrr, disporrebbe di un’enorme occasione, di un’opportunità dalle potenzialità uniche: la stragrande maggioranza degli interventi concordati con l’Ue concernono ammodernamenti e potenziamenti di infrastrutture, principalmente network business come rete elettrica, idrica, fibra ottica, e poi, soprattutto, la diffusione di innovazioni tecnologiche nei più diversi settori, specialmente energia, ambiente ed economia circolare.
È su queste direzioni che si traccerà il raggiungimento o meno del cambio di paradigma tecnologico ed organizzativo del “Sistema Paese”, passaggio che, a sua volta, darà la spinta propulsiva indispensabile all’Italia per riuscire nella complessa e costosissima transizione energico-ambientale. In poche parole, chi riuscirà a centrare progressivamente gli obiettivi fissati da Bruxelles disporrà delle risorse e delle tecnologie per poter “navigare” nel tempesto ed incerto mare economico della globalizzazione dei prossimi cinquant’anni.
Cerchiamo di contestualizzare e fornire qualche dato, per dare una dimensione al fenomeno che si sta delineando. In particolare la Missione 2, “Rivoluzione verde e transizione ecologica” impiegherà ben il 31 per cento delle risorse del Pnrr e l’Italia è riuscita a realizzare per le due prime tranche di pagamento 96 milestones e targets (il 18 per cento del totale) di cui 24 relativi alla Missione 2. Si noti che la Missione è articolata in quattro componenti, ognuna delle quali, a sua volta, contiene una serie di investimenti e riforme, che vanno dall’economia circolare all’introduzione diffusa dell’idrogeno, dall’efficienza energetica in tutti gli edifici alla tutela permanente del territorio.
La Missione 2, al 19 maggio 2022, aveva intercettato 33.698 proposte da parte degli enti territoriali per un volume di investimenti richiesti pari a circa 70 miliardi di euro, cifra notevolmente superiore ai 59,46 miliardi previsti nel piano. La regione che ha inviato le proposte più sostanziose è il Lazio, con 12,1 miliardi di richiesta di finanziamento, seguito dalla Campania (con 9,4 miliardi) e dalla Lombardia (7,5 miliardi). Quest’ultima è invece la prima per numero di progetti (14.732), seguita da Piemonte (9.958) e Campania (8.780).
Va altresì ricordato che l’Italia ha registrato il trend più marcato di crescita nell’uso circolare della materia tra il 2011 e il 2020. Il nostro Paese eccelle, tra i maggiori stati europei, per produttività delle risorse (3,5 euro di Pil prodotto per ogni Kg di risorsa consumata, contro una media europea di 2,1 euro di Pil), quota di riciclo complessiva del 68 per cento (la media europea è del 35 per cento) e basso consumo pro capite di materiali, pari a 7,5 tonnellate (media Ue pari a 13,5 tonnellate).
Tale, positivissimo, spunto induce due importanti riflessioni: la prima, visto l’ottimo posizionamento dell’Italia nel settore dell’Ec, dovrebbe più che mai spingere l’intera classe dirigente nazionale (politici, investitori istituzionali e privati, imprenditori) a valorizzare e potenziare tale contesto, dando forma e procedura al mercato del riciclo che oggi soffre pesantemente di vuoti normativi e commerciali: ad esempio il rifiuto non è immediatamente commerciabile dai privati cittadini, ma viene incanalato verso percorsi predefiniti che ne limitano fortissimamente la compravendita. Di poi, per molte materie, specialmente i metalli, i tradizionali consorzi di raccolta e/o recupero, pur non avendo più il monopolio giuridico, hanno quello “de facto”, che scoraggia altri soggetti ad entrare nel mercato e ad effettuare concorrenza su larga scala, perché il vantaggio acquisito dai primi è troppo grande e si è maturato in decenni. La seconda riflessione concerne la strategica importanza dell’Ec nel contribuire all’autosufficienza, almeno parziale, delle materie prime specie di quelle strategiche. Molte di queste già oggi sono di sempre più difficile reperibilità sui mercati internazionali, le cui quantità disponibili hanno costi sempre più alti, tanto da essere state ribattezzate Mpc, ossia Materie Prime Critiche, poiché la loro scarsità sta causando seri problemi nella componentistica della filiera dell’intera industria elettronica, da cui dipende il nostro standard di vita!
Perciò l’opportunità di incentivare ed avanzare nelle pratiche di riciclo, riuso e, soprattutto recupero delle materie dagli scarti di lavorazione e rifiuti di consumo è fondamentale per un paese come l’Italia, povero di risorse minerarie ed energetiche, ma con ancora una forte vocazione manifatturiera.
L’altro grande tema, soprattutto in questi tempi di crisi dei prezzi energetici, riguarda il piano di sviluppo delle rinnovabili e l’armonizzazione delle stesse con gli altri impianti gas, specie quelli di potenza. La guerra e la connessa incertezza dei rifornimenti, ha spinto molte aziende ed utenti, ad installare sui propri capannoni e terrazzi impianti solari, termici e fotovoltaici, per mitigare e contenere gli effetti pesantissimi del caro energia: tra gennaio e ottobre 2022 si registra un aumento di ben 1,87 GW rispetto ai 779 MW del 2021 nello stesso periodo (+13 per cento). Più in generale dal 2013 al 2021 la media annuale delle installazione di nuova potenza fotovoltaica si attestava a 550 MW. Ed anche nell’installazione di nuova capacità eolica emergono progressi significativi: un aumento di 442 MW nei primi dieci mesi del 2022 contro i 190 MW installati tra gennaio e febbraio del 2021 (+8 per cento). Dal 2013 al 2021 la media annuale di installazione di nuova potenza eolica si attestava a 350 MW.
A fronte di tali potenziamenti il Pniec (Piano Nazionale Integrato per l’Energia e il Clima per il periodo 2021-2030) delinea una riduzione dei consumi al 2030 pari al 43 per cento dell’energia primaria e 39,7 per cento dell’energia finale; ed è il settore residenziale che deve contribuire maggiormente all’efficientamento dei consumi, con un risparmio di circa 3,3 Mtep annui. Sembrerebbe una combinazione perfetta che contribuisce, grazie all’aiuto di Bruxelles, all’incremento dell’autosufficienza energetica, facilitando così la transizione. Eppure, paradossalmente, queste spinte iniziali e convergenti (l’aumento incontrollato delle Fer e la diffusione massiccia dell’efficienza energetica) causano numerose incognite e delle più diverse tipologie: tecniche, organizzative ed economiche. Per prima cosa, va adeguata la rete di Media e Bassa Tensione in conseguenza di tutti i nuovi allacci. Situazione per la quale si pone la doppia problematica di raggiungere, in tempi brevi per l’azienda, la Via, nonché di riuscire materialmente a costruire la linea nuova che si necessita. Altra problematica riguarda l’organizzazione del parco centrali, in quanto l’attuale sistema di borsa – piuttosto rozzo – che individua nel prezzo offerto il criterio di selezione, va a premiare sistematicamente le rinnovabili, le quali, però, presentano la solita annosa problematica dell’intermittenza e dell’impossibilità di accumuli di potenza. Pertanto, al momento, sono le centrali turbo gas che assicurano l’energia quando le Fer tacciono, e si tratta di un pesante costo aggiuntivo. E qui si incorre nella terza questione, ossia il raggiungimento durevole dell’economicità del servizio energetico. A nostro avviso non esiste una soluzione tecnica che sia nettamente più vantaggiosa rispetto ad altre; è altamente auspicabile un mix fortemente armonizzato, ossia nel quale il potenziamento di alcune tipologia di impianti avvenga non in contrasto ma in programmazione con quelle già esistenti, e dove l’eventuale mancanza del vettore energetico (gas) sia compensata da una ben più amplia disponibilità di campi di stoccaggio e rigassificatori. Ed una simile impostazione può trovare una giustificazione economica, specie negli investimenti, se, e soltanto se, si realizza il progetto di fare dell’Italia l’hub energetico euro-mediterraneo, nel quale la contrazione dei consumi interni dell’energia, dovuti all’efficientamento energetico e alla decrescita demografica, sono compensati dalla richiesta esterne.
Se questa sarà la vera Mission non scritta del Pnrr italiano, sarà allora possibile raggiungere una continuità di sviluppo industriale e manifatturiero che assicuri occupazione e Welfare State anche per la prossima generazione, perché senza energia a buon prezzo decade l’intera impalcatura del nostro sistema economico.
Aggiornato il 30 dicembre 2022 alle ore 13:07