Dal 2001 al 2010, cioè in soli dieci anni, senza accorgercene abbiamo assistito a una serie di scelte e di azioni lungimiranti tutte mirate a “segnare” sul sistema mondiale indirizzi e atti che miravano a un forte consolidamento dell’economia degli Stati euroasiatici. Mi riferisco a due esperienze ricche di elevata lungimiranza: il sistema delle Reti Trans European Network (Ten-T) e la Belt & Road conosciuta anche come la Via della Seta.
Nel caso delle Reti Ten-T dobbiamo riconoscere un grande merito ai commissari Karel Van Miert e Loyola de Palacio che riuscirono a definire una griglia infrastrutturale che garantiva, all’interno del sistema comunitario, una interazione organica e funzionale fra i vari Paesi della Unione e, soprattutto, va riconosciuto ai due commissari la lungimirante scelta di un Corridoio, quello che da Lisbona raggiungeva Kiev. Un Corridoio che, a tutti gli effetti, si configurava come il “cordone ombelicale” tra la Unione europea e l’Est; in realtà anticipava di soli otto anni la scelta cinese di utilizzare nei collegamenti tra l’area occidentale dell’Europa e quella orientale la modalità di trasporto terrestre, cioè la strada e la ferrovia.
Nel marzo del 2009, in un apposito summit, la Cina presentò il progetto denominato “Belt & Road” e, sempre nel summit svoltosi a Pechino, la Cina chiarì che si trattava di un progetto che includeva anche un Continente che era stato considerato da sempre estraneo ai teatri delle convenienze. Inoltre, in tale occasione venne ribadito che il Mediterraneo diventava in tale progetto un terminale chiave e che il Mare del Nord, attraverso l’asse terrestre Pechino-Amburgo acquisiva una ulteriore occasione per incrementare ulteriormente le proprie potenzialità. In realtà, sia il Mediterraneo che il Mare del Nord venivano ad acquisire vantaggi reciproci. Il coinvolgimento dell’Africa, sempre secondo il Progetto cinese, perseguiva due obiettivi fondamentali: la realizzazione di un grande impianto portuale a Mombasa e la costruzione di un asse autostradale Mombasa-Lagos per rendere in tal modo possibile un’alternativa al Canale di Suez per le merci provenienti dalla Cina e dirette verso l’Oceano Atlantico. Ricordo che dopo meno di dieci anni questi due obiettivi sono quasi raggiunti.
A questa azione strategica cinese, sempre nella prima decade del secondo millennio, in particolare nel 2005, la commissaria de Palacio definì un Piano che affrontava tutte le reti e i nodi che facevano da contorno al sistema delle Reti Ten e propose appositi interventi nell’area settentrionale del Continente africano, nella vasta area asiatica-meridionale e nell’area orientale dell’Europa. Erano interventi esterni all’Unione europea come il Corridoio 8 (Taranto-Bari-Brindisi-Durazzo-Varna), il Corridoio 10 (che da Ankara raggiunge Varna, Bucarest, Budapest e Belgrado) ed altri corridoi che interessavano Paesi come la Turchia, la Georgia, l’Azerbaijan, l’Armenia e l’Iran. L’Unione europea appoggiò queste iniziative e, addirittura, supportò anche finanziariamente gli studi progettuali perché convinta che in tal modo si consolidava sempre più una griglia infrastrutturale euro-asiatica che amplificava, in modo positivo, le caratteristiche della “globalizzazione”.
Se leggiamo attentamente le proposte della “Via della Seta” scopriamo che in fondo c’era in esse una elevata carica di complementarità con il progetto e le finalità dell’Unione europea e l’elemento più significativo sicuramente era questa scoperta comune dell’asse terrestre, cioè dell’asse Lisbona-Kiev e dell’asse Pechino-Amburgo. In realtà, questo encomiabile lavoro, mirato alla costruzione di un assetto infrastrutturale vastissimo in cui tutte le realtà presenti al suo interno interagivano, rappresentò, a mio avvio, il momento più avanzato dell’accordo di Schengen, di quell’accordo che perseguiva un difficile obiettivo: la libera circolazione delle merci e delle persone.
Una libera circolazione che con una simile griglia, sommatoria di scelte comunitarie e cinesi, finalmente stava diventando possibile. Aggiungo un’altra condizione che si caratterizzava come una volontà a dare la massima concretezza alle iniziative: i due progetti contenevano un apposito Fondo, quello comunitario per le Reti Ten era di circa 30 miliardi di euro, quello cinese era più consistente ed era pari inizialmente a 100 miliardi di dollari. Questi fondi, in realtà, dovevano contribuire alla realizzazione di questa articolata e complessa offerta infrastrutturale ma, soprattutto, dovevano essere una occasione per i vari Paesi a fare delle scelte coerenti con gli obiettivi congiuntamente disegnati.
Molti hanno ritenuto e ritengono l’operato della Cina ricco solo di un interesse espansionistico; a mio avviso questa è una interpretazione che dimentica che la Cina tra il 2000 e il 2010 è diventata la seconda maggior esportatrice mondiale di merci dopo la Germania. Le sue esportazioni lorde annuali, pari a circa 250 miliardi di dollari, nel 2000 sono cresciute di quasi cinque volte raggiungendo i 1.218 miliardi di dollari nel 2007. Inoltre, per capire quale sia la forza logistica nel comparto marittimo ricordo che sui primi dieci impianti portuali del mondo sette sono cinesi. Di fronte a questi dati penso sia facile convincersi che l’espansionismo economico si vince contrapponendosi e diventando interlocutori e non cercando passivamente di non essere attori preferendo, spesso, essere spettatori. Leggendo, inoltre, le proposte progettuali non ho riscontrato un interesse al controllo dei processi socio-economici dei territori attraversati ma solo una attenzione legata alla ottimizzazione delle convenienze.
Ritengo opportuno ricordare che sempre in quel primo decennio del secondo millennio prese corpo la legge 443/2001 (legge Obiettivo) che, per la prima volta nella storia del nostro Paese, approvò per legge il Programma delle Infrastrutture strategiche, cioè un programma di opere coerenti con il Piano generale dei Trasporti approvato nel 1986. Nel 2002 il Governo supportò tale Programma con apposite risorse. E proprio questo strumento programmatico consentì al nostro Paese l’ottenimento di quattro corridoi comunitari su nove definiti dalle Reti Ten. Poi nell’arco di soli due anni tutto è finito. È stata la pandemia? È stata la guerra in Ucraina? Senza dubbio questi due eventi hanno scosso e ridimensionato tutti gli interessi, ma a smorzare gli entusiasmi su questa corsa verso la costruzione di condizioni e di obiettivi che la mia generazione aveva sognato e cioè quella della sopra richiamata “libera circolazione delle merci e delle persone” sono state due forti crisi esplose già negli anni 2015-2020. Mi riferisco in particolare alla crisi della “globalizzazione” ed alla ricomparsa del concetto di “confine”.
La globalizzazione era entrata in crisi anche per colpa della cattiva gestione delle logiche legate alla “concorrenza”; in fondo, non poteva durare a lungo una globalizzazione in cui alcuni Paesi offrivano condizioni lavorative irrispettose delle soglie minime di assistenza previdenziale e sociale; non poteva durare a lungo una globalizzazione in cui alcune aree produttive non erano soggette ad alcun controllo fiscale ed assicurativo. Il concetto di confine, invece, era ricomparso per la imprevedibile e ingestibile esplosione del fenomeno migratorio.
Metto quindi in uno dei primi posti dell’album di criticità che incontrerà il nuovo Governo questa difficoltà a non essere più la tessera di un mosaico difficile ma disponibile, complesso ma utile, come riferimento strategico. Questa difficoltà nel non poter più disegnare scenari non a lungo termine, non a medio termine ma, addirittura, a breve termine rischia di compromettere ogni carica programmatica. Perciò, ritengo essenziale – nella definizione del programma del nuovo Governo – misurare attentamente questo difficile momento che vive il Paese. E meditare a lungo su questo tormentato isolamento.
(*) Tratto dalle Stanze di Ercole
Aggiornato il 09 novembre 2022 alle ore 11:18