Stagflazione: si aspettano gli interventi

In un articolo pubblicato su questo stesso quotidiano lo scorso 11 ottobre rilevammo come le imprese italiane avrebbero affrontando da lì a poco un autunno durissimo e non solo per la crisi energetica e per l’ascesa inarrestabile dei prezzi al consumo. Sempre nell’articolo segnalato abbiamo ricordato che per rispondere alla stagflazione le ricette economiche di tipo liberista sostenute dalla Banca centrale europea l’avrebbero presto convinta ad intervenire sulla domanda aggregata attraverso una politica monetaria restrittiva. In tal modo la contrazione dell’offerta non si scontra con un eccesso di domanda, in grado di provocare inflazione. In definitiva si interrompono le aspettative d’inflazione.

Ebbene, il Consiglio direttivo ha effettivamente deciso lo scorso 27 ottobre di innalzare di 75 punti base i tre tassi di interesse di riferimento della Bce. L’aumento dei tassi di riferimento, che ne segue altri due consecutivi, è stato deciso (così come da me argomentato nell’articolo indicato) per assicurare “il ritorno tempestivo dell’inflazione all’obiettivo del 2 per cento a medio termine”. Esso, come ben chiarito nel comunicato della Bce, “definirà l’andamento dei tassi di riferimento in futuro in base all’evolvere delle prospettive per l’inflazione e l’economia, riflettendo un approccio secondo il quale le decisioni sui tassi vengono definite di volta in volta a ogni riunione”. Oltre alla misura standard sui tassi d’interesse la Bce è anche intervenuta di modificare i tassi di interesse applicabili alle Omrlt-III a partire dal 23 novembre 2022 e di offrire alle banche ulteriori date per il rimborso anticipato volontario degli importi e di fissare la remunerazione delle riserve obbligatorie detenute dagli enti creditizi presso l’Eurosistema al tasso della Bce sui depositi presso la banca centrale, allo scopo di allineare maggiormente tale remunerazione alle condizioni del mercato monetario.

La preoccupazione della Bce, dunque, è l’inflazione, ed in effetti (da statuto) il suo compito principale è mantenere la stabilità dei prezzi ma se continua ad essere di gran lunga troppo elevata è facile prevedere che, con una buona approssimazione, si manterrà su un livello superiore all’obiettivo per un prolungato periodo di tempo, atteso che a settembre l’inflazione dell’area dell’euro ha raggiunto il 9,9 per cento.

Già allora nell’articolo ricordato ebbi modo di osservare il rischio di una tale decisione, in quanto le autorità non sono in grado di controllare perfettamente la recessione e di come l’effetto complessivo potrebbe essere non una recessione controllata, ma (è questo il vero pericolo) la creazione di un vortice depressivo che accentui la recessione e che deprimendo la domanda comprometta anche l’offerta, con il risultato che accanto ad una moderata riduzione della spinta inflattiva, avremo uno shock nell’offerta che spingerebbe ulteriormente verso la stagflazione.  

In altre parole, un aumento, più o meno elevato, dei tassi d’interesse da parte della Banca centrale comporta una riduzione del Pil, quantomeno in termini reali, e, di fatto, una recessione. Ma, soprattutto, non è idonea a fermare l’aumento dei prezzi, dato che questo è dovuto a fattori dal lato dell’offerta (e non della domanda), per cui in definitiva si accresce il rischio stagflazione.  

Per altro verso, non può non condividersi il principio che è difficile pensare l’economia europea possa sopportare un tasso di inflazione molto più alto rispetto all’obiettivo di medio termine (il fatidico 2 per cento, fissato dalla Bce) e questo anche perché l’economia non ha un livello di ritorno del capitale molto superiore. Ma allora che resta da fare?

Bene, l’inflazione attuale è un fenomeno che nasce in alcuni settori specifici dell’economia (in primo luogo la componente energia e costo delle materie prime), in cui spesso però sono stati registrati parallelamente anche aumenti vertiginosi dei profitti da parte delle società intermediarie ed estrattive. Una possibile soluzione, quindi, si palesa: cercare di bloccare l’aumento dei prezzi in questi settori con misure mirate e non generalizzate all’intera economia sembra essere la strada percorribile e che, in definitiva, è capace di generare minor danno.

Il problema è che si tratta nella generalità dei casi di imprese multinazionali e con titoli quotati sui mercati di borsa e che il mercato dell’energia è un mercato molto sofisticato. Il Governo Draghi ci ha già provato stabilendo che dalla differenza fra il prezzo di acquisto e quello di vendita del gas da ottobre 2021 a marzo 2022, rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, si dovesse applicare in più una tassa del 25 per cento. La previsione d’incasso era di undici miliardi di euro, e lo stanziamento avrebbe ridotto il peso delle bollette di famiglie e imprese.

Bene, la reazione era naturale. I principali destinatari di questa tassa extra hanno motivato (dal nostro punto di vista giustamente) il loro rifiuto a pagare. In effetti il Mef ha calcolato l’imposta sulla liquidazione Iva, cioè a quanto comprano la materia prima gli operatori e a quanto la vendono. Questo di tutta evidenza è un prezzo grezzo. Inoltre, nella filiera dell’energia intervengono anche una pletora di soggetti intermediari, che per il Mef non sono soggetti al pagamento (in primo luogo gli intermediari finanziari che hanno con le polizze di copertura fatto non pochi guadagni). Insomma, un’imposta sbagliata!

In definitiva altre strade erano possibili, dalla tassazione dei profitti delle imprese ad una imposta sulle transazioni nei mercati finanziari ecc..

Ma se il parto dell’imposta sugli extra profitti è stato solo una vera brutta figura, che speriamo il nuovo governo riuscirà ad evitare il facendo tesoro degli errori di quello dimissionato, resta il fatto che è necessario intervenire a sostegno della domanda, con un intervento pubblico che mitichi gli effetti del “caro-bollette”; su questo punto i consensi sembrano essere peraltro unanimi, ma l’intervento sugli extra profitti tarda a essere attuato e, questo non è bene.

(*) Direttore del dipartimento di Scienze politiche dell’Università internazionale per la Pace dell’Onu, delegazione di Roma

Aggiornato il 03 novembre 2022 alle ore 10:39