“Due strade divergevano in un bosco, ed io –
Io presi quella meno battuta,
E questo ha fatto tutta la differenza”
(Robert Frost, The Road Not Taken, 1916)
Qual è il rischio di tenere un cavallo imbizzarrito per la coda? Semplicemente quello di prendere un calcio in faccia! È quello che sta avvenendo con l’inflazione. In questo periodo è stato epitetato come “un grande risultato” del governo italiano guidato da Mario Draghi, quello di avere concordato, ma ancora non attuato, un tetto variabile al prezzo del gas con gli altri Paesi europei, che a una prima analisi, basata però sull’emotività del momento, sembra una buona idea, in grado di calmierare i prezzi dell’energia e quindi di dare respiro alle famiglie e alle imprese. Ma siamo sicuri che lo sia veramente o è solo un antipiretico che fa abbassare solo momentaneamente la febbre al malato per poi farla scoppiare con maggiore virulenza? La mia considerazione nasce dal fatto che non si sono toccati i punti salienti che hanno determinato la crisi energetica e temo che non si vogliano nemmeno analizzare.
Intanto i prezzi del gas (fonte Arera) sono iniziati a crescere dal IV trimestre del 2018 (Governo Conte I), si sono mantenuti relativamente stabili nel I trimestre 2019 per decrescere fino al III trimestre 2020 prima (Governo Conte II e poi Draghi) per esplodere da quel momento in poi gettando nel panico imprese e famiglie. Quindi, in ogni caso, la guerra in Ucraina ha solo al massimo acuito il danno ma non lo ha generato, però è servita a coprire mediaticamente le altre cause. Infatti, hanno influito molto negativamente la scelte politiche dal 2019 in poi e quelle di dieci anni prima, principalmente in tema di bonus 110, ristori a pioggia e per finire decarbonizzazione e transizione energetica, queste ultime imposte con tempistiche brutali che hanno determinato la reazione dei mercati alla frenesia ambientalista irrazionale di cui sono stati vittime i governi europei. Se mettiamo in relazione il tutto con la crescita dell’inflazione in Italia, vediamo la stessa evoluzione: prima giù moderatamente e poi su vertiginosamente, e se compariamo la curva di quella italiana con quella tedesca ci accorgiamo che hanno lo stesso gradiente (la rapidità con cui cambia direzione) o quasi e la stessa linea di tendenza, così anche quella francese, britannica e dell’area euro quindi un problema più che continentale e non solo nazionale.
Se ci spostiamo negli Usa ecco che si riaffacciano le stesse tipologie di curve con la differenza evidente che dal 2021 la crescita dell’inflazione si fa più importante. Se ne deduce, osservando i grafici, che dopo le chiusure generalizzate dovute alle decisioni politiche per il contenimento del Covid-19 in tutti i Paesi sviluppati alle riaperture si è avuto uno shock di domanda positiva (una richiesta massiccia ed improvvisa di beni e servizi), che ha determinato un aumento di produzione e un conseguente innalzamento dei prezzi delle materie prime e dell’energia.
Ma essendo, non solo fenomeni strettamente economici, ma anche monetari, la scelta delle banche centrali di mantenere tassi di interesse relativamente bassi nel tempo e continuare a comprare titoli di stato, come ha fatto la Bce con il programma di Mario Draghi di dieci anni fa, sintetizzato dalla famosa espressione “Whatever it takes” (costi quel che costi), e gli interventi analoghi della Federal Reserve (la banca centrale degli Stati Uniti) come affermano gli studiosi del Cato Institute e del Mercatus Center della George Mason University, ha prodotto che la crisi si sia solo spostata nel tempo arrivandoci ora addosso con tutta l’energia accumulata in precedenza, come una molla compressa secondo la legge di Hooke e il costo lo continueremo a subire noi fino a quando, dopo diverse oscillazioni intorno all’equilibrio, si arriverà al punto di riposo della stessa.
Il paragone tratto dalla fisica mi offre la possibilità di chiarire la mia posizione: questi avvenimenti sono stati indotti da scelte sbagliate, dettate dalla tipica presunzione, di stampo keynesiana, che l’intervento dello stato in economia non causi distorsioni al sistema ma anzi lo rilanci, con l’aggravante di credere fideisticamente di governare l’imponderabile e via via di assorbire eventuali alterazioni. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: inflazione al 12 per cento in rapida crescita, Pil in discesa e costi di energia alle stelle. Il fatto è che paradossalmente ad una già grave iniziativa il “Whatever it takes”, adesso si vuole far fronte con un’altra altrettanto grave ingerenza: il deficit di bilancio. Infatti, il tetto al prezzo del gas dinamico non significa altro che la differenza tra il prezzo pagato dal consumatore finale e il costo reale pagato dall’agenzia nazionale per l’energia, lo rifonde lo Stato attraverso il pubblico erario.
Nella sostanza se queste risorse non saranno in cassa li si faranno magicamente comparire attraverso sia un fondo di europeo sul modello Sure già usato durante la pandemia sotto forma di prestiti concessi dall’Ue agli Stati membri, sia con un ulteriore debito pubblico nazionale, magari con titoli acquistati dalla Bce. Il “Whatever it takes” continua a perseguitarci. Tutto questo potrebbe avere però due probabili ed esiziali esiti: da un lato si sfonderà ancora il rapporto deficit Pil che per il fiscal compact è fissato al 3 per cento ma che il governo Conte II ha superato con la motivazione dei ristori dovuti agli imprenditori che sono stati costretti a tenere chiusa la propria attività dallo stesso e dall’altro, visto che “non esistono pasti gratis”, si getteranno le basi per una tassazione europea che servirà a rifondere le cifre spese e a pianificare politicamente in parte o in toto l’economia delle nazioni.
E che importa? dirà qualche misericordioso con le tasche degli altri. Bene accadrà che proprio il governo sovranista di Giorgia Meloni, per non andare a gambe all’aria come accadde a quello di Silvio Berlusconi del 2011, sarà costretto a cedere quote di sovranità alle istituzioni europee che a loro volta saranno costrette ad intervenire pesantemente con tributi comunitari palesi e/o camuffati. Allora quale potrebbe essere una via di uscita? Certamente non tenere questo cavallo imbizzarrito (l’inflazione) per la coda, ma anzi farne sfogare la furia, cercando da un lato di rallentarne l’andatura e dall’altro indirizzandolo in campo aperto per evitare che faccia troppi danni fino a calmarne i bollenti spiriti, poterlo sellare e cavalcare tranquillamente.
Come si fa decelerare allora il nostro destriero impazzito? intanto non aumentando la massa monetaria in circolazione con ulteriore deficit e chiedendo contemporaneamente alla Bce di non modificare più i tassi di interesse al rialzo sull’onda dell’emotività del momento, poi rinegoziando in sede Europea un nuovo Fiscal Compact dal 2 per cento al massimo 3 per cento e non al 5 per cento come qualcuno vorrebbe per continuare a fare festa con le nostre tasche. Rassicureremmo gli operatori dei mercati sulla affidabilità del sistema Italia, non permettendo ai governi nazionali di fare ulteriori debiti e costringendoli a fare una sana politica di pareggio di bilancio. Inoltre nel medio termine la Banca Centrale potrebbe abbassare i tassi di interesse così da avere linee di finanziamento alle famiglie e alle imprese più convenienti e soprattutto più stabili nel tempo.
E se come sosteneva il Premio Nobel per l’economia Friedrich von Hayek, le crisi sorgono per riequilibrare errori o distorsioni causati da una politica economica sbagliata, si creerà un nuovo assetto generale in cui i prezzi saranno più aderenti ai costi di produzione e forse eviteremo il calcio in testa che temo. Ma anche tutto questo ha un onere non indifferente, perché una bassa inflazione comporta probabilmente un aumento della disoccupazione a causa di una diminuzione della domanda aggregata e quindi un calo della popolarità del governo. Ma scegliendo una percentuale accettabile e sostenibile da un adeguato welfare state, di non occupati, si potrebbero fissare i limiti inferiore e superiore dell’inflazione correlata al Pil in maniera da avere un rapporto equilibrato tra produzione e consumo, in maniera da compensare gli eventuali effetti negativi che inevitabilmente si presenteranno.
Scenario non facile da considerare per qualsiasi governo politico, ma necessario per non arrivare alla catastrofe, non passare alla storia come quelli del default, cosa a cui siamo quasi arrivati 10 anni fa e affermare la società libera perché una delle vie della schiavitù è proprio l’insolvibilità dei debiti. Al presidente Meloni rivolgo infine il quesito che chiude “Democrazia in deficit” di James M. Buchanan e Richard E. Wagner “come il viaggiatore di Robert Frost, ci troviamo di fronte ad una scelta tra strade alternative. Da un lato c’è la strada falsamente attraente della “pianificazione economica nazionale”, una strada che significherebbe che noi consentiamo che il governo vada oltre i suoi limiti tradizionali perché non è riuscito neppure a mantenere le sue promesse più limitate. Dall’altro, c’è la strada della società libera, di uomini e di donne che vivono all’interno di un contratto costituzionale che tiene i governi all’interno di un’armatura scelta appropriatamente. Questa strada così ben compresa dagli americani due secoli fa è stata seminascosta dal sottobosco della crescente burocrazia. Sceglieremo, come il viaggiatore di Robert Frost, la strada meno praticata?”.
Aggiornato il 31 ottobre 2022 alle ore 13:02