La commemorazione del sessantunesimo anniversario della scomparsa di Luigi Einaudi cade in un periodo di gravi difficoltà per l’economia e la società del Paese, quella economia e quella società alla cui ricostruzione, nei primi anni del Dopoguerra, egli aveva così efficacemente contribuito. Non è certo questa di oggi l’economia ch’egli vagheggiava: un’economia, cioè, dove il principio della libera iniziativa fosse saldamente e fermamente salvaguardato, dove la mano pubblica intervenisse nella produzione solo quando fossero in giuoco reali interessi d’ordine generale. Dove, cioè, lo Stato attendesse soprattutto ai suoi compiti essenziali e fondamentali che sono quelli delle libere attività dei singoli, per l’ordinato sviluppo dell’intera collettività.
Né è, questa di oggi, la società nella quale egli credeva, cioè una società in cui fossero assicurate a tutti eguali posizioni iniziali di partenza, senza privilegi per nessuno, palesi od occulti, una società dove in ciascuno fosse vivo il senso di responsabilità e l’attaccamento al dovere, dove la scuola fosse una severa palestra di formazione d’intelligenze e di caratteri, dove le associazioni e i gruppi di vario genere che in una collettività nazionale naturalmente si costituiscono fossero emanazione e rappresentanza degli interessi e delle aspirazioni dei singoli e non già strumenti di potere di piccole oligarchie rappresentative solo di se medesime.
No, non sono queste l’economia e la società di oggi, che pur parevano avviate a costituirsi, mercé l’azione e il pensiero di Einaudi, nel periodo in cui egli ebbe importanti funzioni e responsabilità pubbliche. Se Einaudi potesse oggi tornare fra noi e osservare quello che è diventata la nostra economia e la nostra società, ripeterebbe malinconicamente che la sua attività politica non ha avuto valore durevole e che il suo pensiero economico e civile fu tutto una predica inutile.
La nostra società oggi è sotto l’impero di una trista demagogia, sovvertitrice, in ogni settore, dei valori morali fondamentali, quali il sentimento del dovere, il rispetto dell’autorità, il sentimento della solidarietà civile ed umana, l’amore di patria, il rispetto delle opinioni altrui, il sentimento della libertà come bene supremo che può non ammettere, in un civile consorzio, coercizioni e violenze di alcun genere. E se da questo quadro generale della società passiamo a quello più particolare dell’economia, ci accorgiamo come è lontana, da una crescente affermazione, l’iniziativa libera privata.
L’imprenditore privato, spesso, è posto sul banco degli accusati, come sfruttatore e speculatore del lavoro altrui – secondo un cliché di oltre un secolo fa, che non ha oggi alcuna rispondenza nei fatti – sicché si sente scoraggiato a continuare un’iniziativa che non vede apprezzata come dovrebbe essere. E che diventa sempre più difficile, per il cosiddetto sistema della conflittualità permanente, in specie normativa, che distrugge a poco a poco le condizioni dell’equilibrio economico della sua azienda. La tentazione per i privati di abbandonare tutto è spiegabile e comprensibile; l’impresa come frutto di libera scelta, come realizzazione di idee novatrici, come centro creatore di nuova ricchezza per la comunità aziendale e per l’intera collettività nazionale, tende così a scomparire, mettendo a repentaglio quello che è il bene fondamentale di ogni civile consorzio: la libertà.
Commemorare questo sessantunesimo anniversario della scomparsa di Luigi Einaudi, soprattutto in concomitanza del Centenario della fondazione del suo Partito, il Partito Liberale Italiano (Bologna, 8 ottobre 1922), al quale diede già nel 1943 la sua convinta adesione, con un quadro così sconsolante della nostra attuale vita civile ed economica, un quadro così lontano dai suoi ideali, sembra quasi un anacronismo. Ma il ricordare uomini come lui, che furono esempi di alte virtù morali e intellettuali, di specchiata e austera vita privata e pubblica, può e deve servire di monito nelle attuali contingenze del nostro Paese, delle cui sorti non vogliamo, non dobbiamo disperare.
Per risalire la china occorre, appunto, additare a tutti gli uomini di buona volontà, ai tantissimi cittadini che praticano, non nella vita pubblica ma in quella civile, professionale e privata, i più sani principi del liberalismo einaudiano (e nel nostro Paese, grazie a Dio, ce ne sono ancora!) modelli di vita come Luigi Einaudi, perché il loro insegnamento torni a risplendere in tutta la sua luce e segnare a tutti l’erta e faticosa via della rinascita. Luigi Einaudi non fu soltanto una figura di primo piano nel campo degli studi economici e finanziari e un accademico di rilievo – nel 1919 venne nominato senatore in base all’articolo 33 dello Statuto Albertino, categoria 18esima, secondo cui i membri della Regia Accademia delle Scienze, dopo sette anni di appartenenza ad essa, potevano entrare a far parte del Senato – e altrettanto non fu soltanto un affermato storico, saggista ed appassionato rinomato giornalista. Luigi Albertini, direttore del Corriere della Sera, nel ricordare nel 1925 la collaborazione di Einaudi al quotidiano, lo dichiarò “uno dei pilastri maggiori della reputazione e dell’autorità del giornale”. Infine, non fu solamente un eccezionale Presidente della Repubblica e federalista europeo: fu soprattutto un Maestro. Nel senso più alto e più nobile della parola.
Nato in un periodo in cui la Scienza economica muoveva in Italia i suoi primi passi, studiò Economia, in particolare sotto la guida di due dei maggiori studiosi ed economisti del tempo: Salvatore Cognetti de Martiis, nostro concittadino barese e Antonio De Viti De Marco, nostro conterraneo leccese. Dal primo, che Bari ha degnamente ricordato intitolandogli una via ed erigendogli un monumento, Einaudi apprese quel metodo d’indagine che si rivolgeva al concreto, ai fatti come si svolgono. Quel metodo che rifugge dalle astrazioni, che sa che le astrazioni sono semplicemente uno strumento per facilitare lo studio della complessa e molteplice realtà. Dal secondo, acquisì criterio nel settore della finanza, ed Einaudi di essi ebbe sempre un ricordo caro, rispettoso ed ossequioso. Basti pensare che, quando in veste di Presidente della Repubblica Einaudi venne a Bari a inaugurare la Fiera del Levante, una delle cose che volle vedere fu la casa natale di Cognetti de Martiis, nella città vecchia, davanti alla quale sostò in riverente, memore raccoglimento; e del De Viti De Marco fece un appassionato elogio nella prefazione di Principii di Economia finanziaria apparsi nel 1934, scrivendo fra l’altro: “Tutti noi che abbiamo studiato i problemi della finanza da trent’anni in qua reputiamo lui “il” maestro”.
Sicché può dirsi, in specie con nostrano vivo orgoglio e compiacimento, che il Nostro, per divenire Maestro, ebbe come insegnanti due nostri grandi conterranei pugliesi, il Cognetti de Martiis nel campo generale dell’economia e il De Viti De Marco nel più specifico settore della finanza. C’è da esser fieri d’essere pugliesi solo per questo, restando a tutt’oggi sbalorditi nel percorrere la monumentale bibliografia delle sue opere racchiuse e pubblicate in un magnifico volume della Banca d’Italia, la quale volle così rendere omaggio alla memoria del vecchio suo Governatore. Si tratta di ben 3.819 pubblicazioni, tra opere, articoli, saggi, memorie, discorsi. Una mole davvero colossale che dimostra l’operosità continua, infaticabile di questo grande Maestro.
Luigi Einaudi si spense a Roma il 30 ottobre 1961. Era nato a Carrù nel 1874. A lui si addicono le parole che egli stesso scrisse per la morte di uno zio materno, che gli fu molto caro: “La sua memoria non verrà mai meno nel cuore di quanti sostengono che la vita è lavoro e che solo hanno diritto alla quiete eterna coloro i quali passarono sulla terra adempiendo alla legge del dovere”.
(*) Bari, 29 ottobre 2022 – Direzione nazionale del Partito Liberale Italiano
Aggiornato il 30 ottobre 2022 alle ore 09:08