Il patrimonio italiano in vendita
Nel 2012, durante il governo di Mario Monti, s’era per la prima volta parlato di riservare all’Italia un “trattamento alla greca” (una durissima procedura fallimentare) qualora gli italiani si fossero ribellati alle riforme che introducevano rigorosissime normative europee nell’artigianato e nel commercio, nonché se si fossero rifiutati di pagare debiti, multe e sanzioni europee in svariati settori e per importi da favola. Ci dicevano che il Paese era al collasso, che solo una stretta mortale della cinghia avrebbe salvato il nostro futuro. Così, circa dieci anni fa, c’era già chi discettava su cosa ci avrebbero tolto in caso di fallimento, soprattutto se alla procedura oltre ai beni demaniali sarebbe stata acclusa quota parte di patrimonio dei privati: per questi ultimi sarebbe stato previsto un parziale salvataggio attraverso una sorta d’ipoteca europea sul mattone di proprietà dei cittadini.
Quest’ultima procedura recentemente resa rapidissima in caso di contenziosi internazionali tra soggetti italiani (pubblici o privati) e creditori internazionali (Stati, banche, multinazionali, società d’affari a vario titolo). Non dimentichiamo che, sotto pandemia, nei contratti stipulati con le multinazionali farmaceutiche e con le strutture finanziarie europee sono stati messi in garanzia i beni artistico-museali italiani. Ovvero il patrimonio italiano bollato dall’Unesco come il più importante del pianeta. Sorge il dubbio che i contraenti non ricordino (o lo conoscano nel dettaglio) il precedente storico nell’Ottocento, tra il sistema tedesco guglielmino e la Turchia al crepuscolo del suo impero: quando vennero azzerati dei debiti con le banche tedesche attraverso il trasferimento nel centro di Berlino di quasi tutti i siti archeologici dell’Asia minore, e così nasceva il Pergamonmuseum.
Un plauso al banchiere Rothschild, consulente del re di Germania e altrettanto ai due validi consulenti archeologi e commercianti d’arte Heinrich Schliemann e Carl Humann. Il risultato è oggi sotto gli occhi di tutti, per visitare l’Ellade necessita fare un “grand tour” berlinese. Se a distanza di qualche millennio è difficile stabilire se le “Porte scee” fossero davvero d’oro, è invece innegabile che il vero tesoro stia oggi in pancia al sistema statale e finanziario tedesco, e con buona pace di miti ed eroi morti nel tentativo di conquistare la più ricca città del mondo classico. Ma l’ingordigia d’arte e il potere sulla bellezza sono mali antichi, nella cultura romantica ai pochi fortunati bastava un viaggio (un “grand tour”) tra Italia e Grecia con faticosa propaggine tra Asia Minore, Armenia, Siria ed Egitto.
Oggi, in forza della tecnologia novecentesca di trasferimento integrale dei grandi complessi architettonici, è anche possibile portare il Colosseo oltre Oceano, oppure decidere di blindarlo come proprietà di società estera che operi in Italia. Non sappiamo, se con dolo o ingenuità, la classe dirigente italiana avrebbe operato come certi debosciati consiglieri degli ultimi Pascià: oggi il patrimonio artistico italiano è davvero a rischio, è nelle attenzioni pratiche d’importanti gruppi internazionali. Soprattutto non sembra le imminenti urne ci possano donare un Mustafa Kemal Atatürk in salsa italiana: col suo arrivo dalla Turchia non potette sortire più nemmeno un chiodo arrugginito.
Ad accendere i riflettori dei pagamenti internazionali in opere d’arte italiane ha provveduto Deloitte, stima su impulso dei quattro maggiori fondi d’investimento mondiali che, a breve, dovrebbero cartolarizzare i beni più belli dello Stivale. Deloitte ha stimato il valore del Colosseo in ottantotto (88) miliardi di dollari. È la seconda volta che il valore del Colosseo e il suo indotto vengono stimati: la prima volta a fine anni Cinquanta, su richiesta di Jean Paul Getty senior, e da lì nasceva la famosa battuta di Totò sulla vendita della Fontana di Trevi. Ovviamente l’Italia di allora respinse al mittente la proposta d’acquisto presentata dal ricco magnate del petrolio e socio con la Getty Oil Company della Corona britannica (diramazioni di quella Standard Oil che non molla la presa sull’Italia). Il Colosseo fa parte di quella musealità romana che occupa circa cinquantamila dipendenti a tempo pieno: lo straniero prevede robotizzazione del lavoro e piano d’efficientamento e licenziamenti, solo un piccolo dettaglio della questione.
Ma la stima, prima che in Italia, era ricapitata in Grecia circa quindici anni fa: ricapitata perché la prima stima dei beni culturali venne fatta in Grecia dai tedeschi verso metà Ottocento. Di fatto, lo Stato italiano è oggi nelle condizioni di pagare i debiti all’Europa e alle varie multinazionali alienando monumenti, porti aeroporti, linee aeree e ferroviarie. Società tedesche, francesi e cinesi si sarebbero già affacciate, ma a pagare di più sarebbero fondi finanziari statunitensi, amici di coloro che si riuniscono a Davos. Secondo gli ultimi dati del bilancio del “Dipartimento della Ragioneria generale dello Stato”, il patrimonio italiano ha un valore di almeno mille miliardi di euro, suddivisi in attività finanziarie e non. L’Italia possiede percentualmente il più vasto patrimonio culturale mondiale: circa cinquemila musei, seimila aree archeologiche, 85mila chiese soggette a tutela e 40mila dimore storiche censite e altrettante in abbandono o non ancora censite.
L’Italia possiede anche coste, riserve e paesaggi naturali: ovvero beni con enorme indotto turistico. Nell’occhio del dio Moloch della finanza ci sono soprattutto cinquantotto siti naturali, dalle Isole Eolie alle Dolomiti, dall’Etna all’intero Sud turistico, dalla Costiera Amalfitana a Portovenere, dalle Cinque Terre al Salento. Deloitte ha lavorato benissimo, la sua stima è la più dettagliata in uso ai gruppi d’investimento: è stata redatta analizzando i dati dell’Unesco, che riguardano mille siti tra culturali, ambientali e misti.
Deloitte ha anche analizzato e giudicato negativamente le competenze in materia di patrimonio culturale suddivise in Italia tra Stato e Regioni: operazione di parte, tesa a mettere sul banco degli imputati la valorizzazione italiana dei beni e i contenziosi tra Stato ed enti locali. Dopo aver studiato il report, i gruppi d’affari hanno manifestato interesse su circa tremila musei italiani: ovviamente mura comprese di opere. L’Italia si confermerebbe, secondo Deloitte, punto di riferimento per chiunque si occupati d’arte, e questo porrebbe lo Stivale al vertice dell’interesse degli investitori. In troppi si chiederanno cosa possano fare i cittadini. A quanto pare nulla, solo dimostrarsi spettatori d’una spoliazione che la politica ci spaccerà come salvifica, come azzeratrice dei nostri debiti.
Aggiornato il 31 luglio 2022 alle ore 10:49