Il “Gold exchange standard” era la formula con cui nell’immediato Dopoguerra si legava la stampa della carta moneta a una quantità definita d’oro (36 dollari ogni oncia d’oro, ora per ogni oncia sono necessari oltre 2000 dollari) per mantenere un rapporto stabile nelle negoziazioni monetarie tra differenti Paesi. Il sistema diede una forte stabilità nei cambi fino al 1971 quando gli Stati Uniti, dovendo stampare carta moneta ma non avendo oro a sufficienza, dichiararono unilateralmente la fine del sistema basato sulla convertibilità in oro e lanciando il mondo in tempeste monetarie, che nel nuovo secolo hanno raggiunto l’apice. Separare la stampa della carta moneta da un sottostante finito, la moneta Fiat, e in quantità scarse, ha lasciato spazio aperto alla stampa infinita di carta moneta senza sottostante, creando un sistema finanziario infinito e non controllabile.
A partire dal 1991 si è aperta la strada a una finanza non regolamentata fondata sul dollaro che ha scosso i mercati, staccando la stessa finanza dai valori reali dei beni e servizi trattati. Alla fine degli anni Novanta, Alan Greenspan ha totalmente deregolamentato la finanza, abolendo la legge Glass-Steagall Act emanata da Franklin Delano Roosevelt nel 1933 per combattere la depressione e il crollo della finanza, creando infiniti strumenti di finanza senza fondamento scientifico. La finanza nelle mani di pochi è diventata un’arma non convenzionale di guerra, come vediamo nel conflitto di oggi tra Russia e Ucraina e le sanzioni finanziarie hanno un potere di mandare in default interi Paesi, se questi non hanno preparato prima una via di fuga.
Quello che si vede adesso è una rincorsa delle Banche centrali all’accumulo di riserve auree: in testa agli acquisti vi sono la Cina e la Russia, che da diversi anni hanno cominciato a creare crescenti riserve d’oro. Dall’inizio della guerra la domanda d’oro per destinarlo a riserva è aumentata del 300 per cento e l’oro viene acquistato anche a prezzi alti. Le maggiori riserve ufficiali pongono gli Usa al primo posto con 8133 tonnellate/oro, a seguire la Germania con 3359 tonnellate/oro, il Fondo monetario internazionale con 2844 tonnellate/oro e infine l’Italia con 2451 tonnellate/oro, poi seguono altri Paesi. Le riserve della Cina e della Russia hanno superato le 3000 tonnellate/oro e ufficiosamente sembrerebbero molte di più. Va ricordato anche che la Cina e la Russia sono i maggiori produttori d’oro, la Cina con 450 tonnellate/anno e la Russia con 295 tonnellate/anno. Da notare che diversi Stati europei che hanno depositato il loro oro Oltreoceano e in Gran Bretagna ne hanno richiesto il ritorno. Anche il nostro Paese ha quasi la metà del suo oro presso la Federal Reserve Bank di New York.
Sia la Cina che la Russia hanno avviato un processo di de-dollarizzazione tramite istituzioni alternative allo Swift e dichiarato l’intenzione di tornare a collegare la stampa di carta moneta all’oro, in altri termini il ripristino del Gold exchange standard. Da tempo la Russia si è preparata alla guerra, liberandosi dei Treasury Bond Usa per evitare le attività congelate all’estero e ha abbattuto il debito pubblico; per questo si è intensificato, unitamente alla Cina, il processo di accumulo d’oro per staccarsi dal sistema occidentale e creare un sistema finanziario alternativo a quello ora dominante, ma sempre meno in prospettiva. La reazione dei Paesi occidentali per rispondere alla convertibilità in oro della moneta Fiat dovrebbe pensare a un piano di risposta che, oggi, sembra molto lontano. Eppure, le riserve d’oro in Europa con i Paesi membri superano le 10.000 tonnellate/oro contro le 8133 tonnellate/oro dichiarate negli Usa. Il Congresso statunitense ha richiesto più volte l’esatto ammontare dell’oro depositato a Fort Knox ma è rimasto senza risposta, sollevando dubbi sulla sua reale consistenza.
Come abbiamo scritto su queste colonne, vi è una guerra più complessa che si gioca a livello geopolitico sulla tenuta dei sistemi monetari in caso di ritorno al Gold exchange standard. E, chi non ha oro a sufficienza per sostenere le proprie valute, può trovarsi in una posizione molto complicata.
(*) Professore ordinario di Economia aziendale – Università Bocconi
Aggiornato il 16 marzo 2022 alle ore 09:42