L’Italia del “No” e dell’ecologismo ideologico, che pensa di salvare l’ambiente con il culo degli altri, ha portato il nostro Paese in una condizione di estrema vulnerabilità energetica, economica e ambientale. Una malattia che ci trasciniamo da molto tempo e che non riusciamo a curarla, a meno che ospedali attrezzati (le istituzioni) con buoni medici primari (le forze politiche e associative) lo facciano responsabilmente e con coraggio.
Il Belpaese è stato capace di distruggere il patrimonio tecnologico e scientifico nazionale legato all’energia nucleare (a seguito delle vicende referendarie) che è stato fondamentale, anche per far fronte inizialmente all’aumento dei prezzi di importazione dei prodotti petroliferi dovuti alla questione arabo-israeliana degli anni Settanta. Oggi, invece, il nostro territorio riceve a caro prezzo circa il 4 per cento dell’elettricità grazie alle pulite e sicure centrali nucleari francesi e slovene. Va tutto bene se la importiamo ma a casa nostra i reattori non li vogliamo. Persino la recente decisione della commissione europea di includere questa fonte (come il gas) nella tassonomia verde, quale soluzione “carbon free” decisiva per la transizione energetica, non riuscirà a convincere i nostri benpensanti.
La gestione dei rifiuti urbani e industriali va a macchie di leopardo al punto da non sposare totalmente l’economia circolare e i suoi principi: da Roma in giù milioni e milioni di tonnellate di rifiuti non vengono riciclati e valorizzati per produrre energia “pulita” vicino casa ma devono essere trasportati a caro prezzo (fino a 300 euro a tonnellata) nei Paesi europei o nelle regioni del Nord Italia facendo ottenere a questi ultimi e alle loro comunità benefici ambientali, economici e sociali. In particolare, ci sono capitali europee come Copenaghen che riescono a concepire i termovalorizzatori anche come punti di attrazione turistica con piste da sci, percorsi escursionistici e pareti da arrampicata: un perfetto esempio di smart city tra energia e rigenerazione urbana per rendere il territorio più vivibile e fruibile. A Roma, invece, i principi dell’autosufficienza e della prossimità sono distanti anni luce: mancano tutte le tecnologie innovative necessarie per chiudere il ciclo dei rifiuti quali i biodigestori, gli impianti di selezione e di riciclo e quelli di trattamento meccanico biologico e i termovalorizzatori. A rimetterci sono i cittadini (a volte corresponsabili e affetti dalla sindrome del Nimby) che avranno tasse sempre più salate a fronte di disservizi tra montagne di rifiuti e innumerevoli discariche abusive per le strade, aria inquinata, degrado sociale e insicurezza. Altro che green new deal, economia circolare, innovazione e sviluppo sostenibile.
L’altro tabù da abbattere è il “No” alle trivelle (come il “No” al Tap) per raddoppiare il gas italiano. Secondo i comitati promotori il combustibile deve restare intatto sotto il fondo del mare Adriatico, e poco importa se Croazia, Albania e Grecia estraggono gas dallo stesso mare e dagli stessi pozzi. Eppure, il gas naturale era, ed è, al momento l’idrocarburo più utilizzato dagli italiani (circa il 43 per cento) e garantisce continuità all’erogazione di energia elettrica quando le fonti rinnovabili quali il solare e l’eolico non assicurano generazione a causa della loro intermittenza e che dovrebbero essere accompagnate da un programma di sviluppo delle tecnologie di accumulo elettrico quali i pompaggi, le batterie e soprattutto il vettore energetico come l’idrogeno.
È accettabile importare 73 miliardi di metri cubi di gas all’anno quando potremmo produrne “in casa” tra il mare Adriatico, il mare Ionio e il Canale di Sicilia e a costi fino a 4 volte inferiori e dipendere, quindi, energeticamente dai paesi nordafricani e mediorientali (Algeria e Qatar) e da quelli coinvolti in crisi geopolitiche (Russia) e trascinati da venti di guerra che soffiano sul già pericolosamente alto prezzo dei carburanti? Di sicuro no. Nelle stanze del nostro ministero della Transizione ecologica si è deciso, poi, di ridurre l’esplorazione e l’estrazione dell’idrocarburo gassoso attraverso il piano regolatore sull’uso del sottosuolo, ovvero lo stesso piano punta su un modesto obiettivo di circa 5 miliardi di metri cubi rispetto a un fabbisogno generale più consistente.
Per rendere il nostro Paese più competitivo e (veramente) più sostenibile, i continui aiuti economici alle imprese e alle famiglie in forte difficoltà a causa del caro bollette o gli accorgimenti finalizzati a velocizzare gli iter amministrativi legati principalmente alle fonti rinnovabili sono un palliativo. L’Italia deve avere più coraggio e determinazione nell’affrontare la transizione ecologica: attuare strategicamente il processo di diversificazione del mix energetico, quale chiave di sviluppo sostenibile e di sicurezza nazionale e smontare gli egoismi localistici per un tornaconto elettorale (e non solo) per recuperare il senso della pubblica utilità, anche quando è comprovata l’assenza di impatto ambientale. Vogliamo, insomma, un ambientalismo responsabile e del buon senso che faccia capire quanto sia imprescindibile la relazione tra l’ambiente e l’innovazione tecnologica.
(*) Presidente Ripensiamo Roma
Aggiornato il 24 febbraio 2022 alle ore 11:28