Tre giorni prima di Natale la Commissione Ue ha reso pubblica la proposta di direttiva che recepisce l’accordo Ocse sulla cosiddetta Global minimum tax (argomento trattato anche dal Centro studi Livatino). I cambiamenti imposti dalla crisi pandemica possono essere forieri di novità anche sul terreno fiscale se le popolazioni delle singole nazioni ne trarranno un concreto vantaggio.
L’enorme propostesi applicheranno a qualsiasi grande gruppo, nazionale o internazionale, che abbia la società madre o una controllata in uno Stato membro dell’Ue. Se l’aliquota effettiva minima, fissata al 15 per cento, non è imposta dal Paese in cui una società a bassa imposizione è ubicata, sono previste disposizioni che consentono allo Stato membro della società madre di applicare un’imposta complementare per differenza (Top-up tax). La proposta garantisce inoltre un’imposizione effettiva nel caso in cui la società madre sia situata al di fuori dell’Ue in un Paese a bassa imposizione che non applica norme equivalenti. In linea con l’accordo globale, la proposta prevede alcune eccezioni. Per ridurre l’impatto sui gruppi che svolgono attività economiche reali, le imprese potranno escludere un importo di reddito pari al 5 per cento del valore dei beni materiali e al 5 per cento dei salari. Le norme prevedono altresì l’esclusione di importi minimi di profitto, al fine di ridurre l’onere di conformità in situazioni a basso rischio. Ciò significa che, quando i profitti e i ricavi medi di un gruppo multinazionale in un dato paese sono inferiori a determinate soglie minime, tale reddito non è preso in considerazione nel calcolo dell’aliquota.
“Procedendo rapidamente per allinearsi con l’accordo di ampia portata dell’Ocse, – ha commentato Valdis Dombrovskis, vicepresidente esecutivo Ue – l’Europa sta svolgendo appieno il suo ruolo nella creazione di un sistema globale più equo di tassazione delle imprese. Ciò è particolarmente importante in un momento in cui dobbiamo aumentare i finanziamenti pubblici per una crescita sostenibile ed equa e i relativi investimenti e soddisfare allo stesso tempo il fabbisogno di finanziamenti pubblici, sia per affrontare le conseguenze della pandemia che per promuovere la transizione verde e digitale. Recepire nel diritto dell’Ue l’accordo Ocse su una tassazione minima effettiva sarà fondamentale per combattere l’elusione e l’evasione fiscali, evitando nel contempo una corsa al ribasso con una concorrenza fiscale pericolosa tra i paesi. Si tratta di un importante passo avanti nella nostra agenda per una tassazione equa”.
Il commissario Ue all’Economia, l’italiano – già presidente del Consiglio italiano – Paolo Gentiloni, ha altresì commentato: “La prossima estate, una volta firmata la relativa convenzione multilaterale, daremo seguito a una seconda direttiva per attuare l’altro pilastro dell’accordo sulla ridistribuzione dei diritti di imposizione. La Commissione europea ha lavorato duramente per conseguire questo accordo e sono orgoglioso che oggi siamo all’avanguardia nell’attuarlo a livello mondiale”.
La seconda iniziativa presentata dalla Commissione europea è poi volta a combattere l’uso improprio di società di comodo a fini fiscali (le cosiddette Shell companies), al fine di garantire che le società che esercitano un’attività economica minima o nulla non possano beneficiare di agevolazioni fiscali e non pesino sui contribuenti. “In tal modo – sottolinea la Commissione – sarà inoltre tutelata la parità di condizioni per la stragrande maggioranza delle imprese europee, fondamentali per la ripresa dell’Ue, e i contribuenti non dovranno sopportare ulteriori oneri finanziari a causa di coloro che cercano di eludere la loro giusta quota di tasse. Le società di comodo o le società fantasma possono svolgere utili funzioni commerciali, ma alcuni gruppi di imprese internazionali e singoli individui ne abusano per una pianificazione fiscale aggressiva o per evadere il fisco. Alcune imprese indirizzano i loro flussi finanziari verso società di comodo in Paesi con un tasso di imposizione basso o nullo o in cui si può facilmente eludere il fisco. Allo stesso modo, anche singoli individui possono ricorrere a società di comodo per non pagare le imposte patrimoniali o sugli immobili nel paese di residenza o nel paese di ubicazione del bene”.
“La presente proposta – ha sottolineato Gentiloni – aumenta la pressione sulle società di comodo, stabilendo norme in materia di trasparenza, in modo da individuare più facilmente l’uso improprio di queste società a fini fiscali. La nostra proposta stabilisce indicatori oggettivi per aiutare le autorità fiscali nazionali a individuare le imprese che esistono solo sulla carta: in questi casi le società saranno assoggettate a nuovi obblighi di dichiarazione fiscale e perderanno l’accesso ai vantaggi fiscali. Si tratta di un altro passo importante nella nostra lotta contro l’elusione e l’evasione fiscali nell’Unione europea”.
La Commissione ha, infine, annunciato che presenterà una proposta, per la parte dell’Accordo Ocse che riguarda il primo Pilastro, sulla riassegnazione dei diritti di imposizione nel 2022, una volta concordati gli aspetti tecnici della convenzione multilaterale. Entro la fine del 2023, sarà poi pubblicato anche un nuovo quadro per la tassazione delle imprese nell’Ue che ridurrà gli oneri amministrativi per le imprese che lavorano in più Stati membri, eliminerà gli ostacoli fiscali e creerà un contesto più favorevole alle imprese nel mercato unico.
Commenta, così, entusiasticamente Rodolfo Ricci, sulla rivista online Conquiste del lavoro del 23 dicembre 2021: “Un fisco più equo e un bilancio comune più forte per spingere la ripresa. Nell’Europa del post-pandemia non c’è più spazio per l’evasione delle grandi multinazionali, né per le loro scatole cinesi o società fantasma attraverso le quali eludono norme e autorità. Sul finire del primo anno di vita del Recovery fund, la Commissione europea vara la sua rivoluzione fiscale in due mosse, si assicura nuove entrate per ripagare i bond per finanziare il Next Generation Eu (…). Grazie alla volata lanciata dall’Ocse con un accordo non semplice firmato a ottobre da 137 Paesi (…), l’offensiva sul fisco di Bruxelles parte dalla minimum tax al 15 per cento che tutti i grandi gruppi, sia nazionali che internazionali, dovranno pagare se la società madre o una controllata si trovano sul territorio europeo. A qualunque latitudine o longitudine.
Un chiaro messaggio e un impegno per quelle giurisdizioni con una corporate tax al di sotto dell’aliquota concordata (per Dublino è al 12,5 per cento) o il Lussemburgo e i Paesi Bassi, che si sono più volte rese protagoniste di tax ruling a favore delle grandi società, soprattutto a stelle strisce e del tech. Permettendo loro di evadere sistematicamente tasse che avrebbe dovuto pagare su tutti i profitti generati sulle vendite in Ue. Ma la minimum tax sarà importante anche per garantire alle casse europee nuove entrate che serviranno a rimborsare le emissioni di titoli per il finanziamento del Next Generation Eu (Ngeu).
Dai suoi proventi, dal 2023 la Ue dovrebbe veder arrivare tra i 2,4 e i 4 miliardi di euro all’anno. Una cifra che può salire fino a 17 miliardi negli anni successivi (dal 2026) con le altre due risorse proprie lanciate da Bruxelles: l’estensione del sistema di scambio delle quote di emissioni (Ets) ai trasporti, al settore marittimo e agli immobili, e l’introduzione di una carbon tax sui prodotti importati. In futuro ne potrebbero seguire altre, come la tassa sulle transazioni finanziarie. “Un momento storico”, per il commissario al Bilancio Johannes Hahn, che ha ricordato che dal 1957 a oggi è la prima volta che si trova un’intesa a livello di Commissione per incrementare le risorse proprie. Ora, come sempre, la parola passa al Parlamento europeo e agli Stati membri. Le proposte riguardano tra l’altro l’estensione del sistema Ets ai trasporti e agli immobili, l’introduzione di una carbon tax su prodotti importati e una quota proveniente dalla Minimun tax sulle società. Secondo le stime della Commissione, una volta a regime queste novità faranno affluire alle casse Ue 17 miliardi di euro l’anno a partire dal 2026. La revisione del sistema Ets fa parte del pacchetto Fit for 55, l’insieme di misure per la riduzione delle emissioni del 55 per cento entro il 2030 adottato nel luglio scorso. In futuro, lo scambio di quote di emissioni si applicherà anche al settore marittimo, aumenteranno le aste delle quote di emissioni per l’aviazione e sarà istituito un sistema specifico per gli edifici e il trasporto su strada. Nell’attuale Ets, le entrate derivanti dalla vendita all’asta delle quote di emissioni sono trasferite per la maggior parte ai bilanci nazionali.
La Commissione propone in futuro il 25 per cento delle entrate provenienti dallo scambio di quote di emissioni confluisca nel bilancio dell’Ue, portando – secondo le stime – a velocità di crociera circa 12 miliardi di euro all’anno in media nel periodo 2026-2030 (9 miliardi di euro in media tra il 2023-2030). Con la carbon tax, invece, si punta a ridurre il rischio di rilocalizzazione delle emissioni di carbonio incentivando i produttori di Paesi terzi a rendere più verdi i loro processi di produzione. Per questo, le importazioni saranno soggette al pagamento di un prezzo per il carbonio, corrispondente a quello che sarebbe stato pagato se fossero state prodotte in Ue. La Commissione propone di destinare al bilancio dell’Ue il 75 per cento delle entrate generate da questo meccanismo di adeguamento del carbonio alle frontiere (Cbam), che sono stimate a circa 1 miliardo di euro all’anno in media nel periodo 2026-2030 (0,5 miliardi di euro in media nel periodo 2023-2030)”.
Il lettore perdoni la lunghezza della citazione, giustificata dal fatto che il commentatore ha evidenziato che il progetto sottostante l’iniziativa legislativa della Commissione non ha soltanto la pretesa di uniformare l’imposizione fiscale per tutti gli Stati membri della Ue in materia di global minimum tax. Ha pure la pretesa di introdurre una imposizione direttamente a favore del bilancio comunitario, volto a ricavare risorse sia per finanziare il progetto di green economy, che prevede la sostituzione delle fonti energetiche con quelle ‘ecosostenibili’, che la redistribuzione a favore dei Paesi più bisognevoli degli aiuti postpandemici; ciò, in particolare, a mezzo della sottoscrizione standardizzata delle obbligazioni di Stato da parte della Bce – Banca centrale europea, la cui presidente, Christine Lagarde, non a caso afferma di non voler ridurre gli acquisti del Pepp – Pandemic Emergency Purchase Programme, nonostante le spinte inflazionistiche che essi implicano.
Orbene, non sarà il caso in questa sede di sottolineare[1] i problemi formali evidenziati dall’accordo, c.d. Inclusive Framework, del 8 ottobre 2021 – ratificato dal G20 di Roma di fine ottobre scorso –, nella parte in cui ha modificato l’Accordo di luglio: per es. nel senso di escludere tout court la tassazione delle attività di commercio digitale (cosiddetto digital tax) e non solo per le multinazionali cui si applica l’Accordo medesimo, ovvero nell’esclusione delle multinazionali, che non saranno soggette alla regola del pagamento “minimo” per i primi cinque anni dopo aver raggiunto la soglia di ricavi di 750 milioni di euro (866 milioni di dollari) se le loro attività materiali estere non superano i 50 milioni di euro (57,7 milioni di dollari) e non operano in più di cinque Paesi esteri. Tale modifica è stata avversata in blocco dai Paesi in via di sviluppo, che premia soprattutto i Paesi in cui nascono ciclicamente e con frequenza grandi aziende, gli Usa ad esempio, ma anche Cina e India.
Va invece evidenziato che il complessivo progetto normativo conferma, da un lato, l’imputazione a sé da parte degli organi del Ue di una legittimazione in materia fiscale in realtà denegata dal principio di attribuzione dei Trattati, che assegnano piuttosto la fiscalità ai singoli Stati membri; dall’altro, il disegno di uniformare la governance mondiale secondo regole dettate da organismi non solo sovranazionali, ma dai più che sfumati profili di assenza di controllo democratico da parte di organi elettivi nazionali, in quanto tali rappresentativi della volontà dei popoli cui, ultimamente in termini di economia reale, quelle regole si andranno ad applicare.
A tali iniziative di riforma, se non formalmente tali, quantomeno in termini di prassi normative, dell’Unione Europea e delle sue prerogative e funzioni, va affiancata la preoccupazione espressa, fra gli altri dall’attuale premier italiano, Mario Draghi, di modificare le regole di funzionamento della Ue nel senso di superare il criterio della unanimità degli Stati membri a favore del principio maggioritario, tale da eliminare il potere di veto in capo a chi tra quelli voglia impedire l’assunzione di decisioni non gradite.
Conferma in tali queste direzioni è stata resa dal governatore di Bankitalia, Vincenzo Visco, in una recente intervista a La Stampa. Nel rilevare il difetto della Ue – “manca di una politica di bilancio comune” –, a domanda su “cosa serve?”, egli risponde: “due cose, per essere brevi. Da un lato, uno strumento di stabilizzazione analogo a quello messo in atto nell’emergenza pandemica. Dall’altro, una capacità di rivedere le norme e le regole del gioco alla bisogna, e qui forse occorre passare per i Trattati. Sarebbe utile una entità di finanza pubblica a livello centrale. Un ministro, se vogliano, dell’economia pubblica dell’Eurozona, se non della Ue, in grado di essere la controparte della politica monetaria unica”.
La crisi pandemica può essere allora foriera di cambiamenti che consentano di andare oltre le rigide regole ordoliberiste su cui è conformato il funzionamento della UE, e quindi anche l’allentamento dei rigorosi criteri del patto di stabilità, nondimeno la stipula di accordi bilaterali, come quello recentemente sancito tra Italia e Francia, magari da ampliare anche ad altri Stati ‘pesanti’, come la Germania: è significativo al riguardo che l’ultima visita estera dell’ormai uscente presidente della Repubblica italiano sia stata compiuta a Berlino, e che tra le prime visite ufficiali del nuovo cancelliere tedesco, Olaf Sholz, sia stata fatta qualche giorno fa a Draghi!
Ma tali cambiamenti saranno da apprezzare se nel merito se ne otterrà un vantaggio nazionale; e in termini generali non si può non sottolinearne il rischio di finale letale vulnus all’Europa in quanto tale, che potrebbe essere essa stessa da ultimo fagocitata da circoli decisionali ristretti, che si pongano in una chiave ancor meno democratica e priva di controllo popolare di quanto non appaiano già oggi gli organi della stessa Unione.
(*) Tratto dal Centro Studi Livatino
Aggiornato il 11 gennaio 2022 alle ore 17:41