L’eredità come peccato originale

Nonostante non sia il momento giusto per parlarne – come hanno sottolineato molti, Mario Draghi incluso – il tema della imposta di successione si presta assai bene ad una rivisitazione dei principi di quella destra e di quella sinistra che solo gli sprovveduti ritengono scomparse. Sull’argomento segnalo un ottimo articolo, scritto per l’Istituto Bruno Leoni, da Nicola Fiorini il quale chiarisce bene come l’imposta in questione sia a tutti gli effetti un’opzione largamente attribuibile alla ideologia socialista. Una dottrina che, per certi versi, aveva influenzato lo stesso Luigi Einaudi, forse perché troppo persuaso dell’idea secondo la quale non sarrebbe giusto che l’erede, che potrebbe non aver fatto nulla nella vita, si impossessi di un capitale lasciatogli dal padre, o forse perché infastidito dalla voce popolare secondo cui il Partito Liberale, a lui caro, veniva allegramente definito come il partito dei ricchi.

Purtroppo, anche su questo piano lo Stato non ha però alcuna autorevolezza etica poiché è il primo a stimolare l’emergere di differenze patrimoniali favorendo, per esempio con le grandi e piccole lotterie, l’idea che ci si possa arricchire senza fare nulla. D’altra parte, il vincitore di una grossa cifra all’Enalotto può pensare, se ne ha l’attitudine, ad investirla in una propria impresa mentre all’erede che non ha fatto mai nulla verrebbe negata la possibilità di fare qualcosa per questa sua colpa originaria. Fiorini ricorda come l’imposta sulla successione agisca come stimolo a non investire e a limitare il successo finanziario e come, proprio per questo, due Paesi importanti come la Svezia e la Norvegia abbiano eliminato questa pratica fiscale, in attesa che lo facciano anche altri. Rimandando all’articolo citato per i dettagli di natura filosofica in relazione al liberalismo e di dottrina giuridica, vorrei qui esporre solo alcune considerazioni di contorno.

La redistribuzione dei redditi attraverso imposte di successione – o prelievi forzati di solidarietà – non dà per nulla luogo ad interventi statali che si possano inquadrare nelle finalità etico-sociali alle quali alludono i termini redistribuzione e solidarietà. Di fatto, i proventi delle suddette azioni fiscali finiscono nel calderone statale e non sussiste alcuna prova, al di là dell’inutile formula tassa di scopo, che lo Stato, non solo quello italiano, provveda a redistribuire o a generare atti di solidarietà percepibile e che lo faccia proprio con i fondi ottenuti per mezzo dei citati prelievi. È comunque assai dubbio che questa regola verrebbe infranta dal prelievo che il poco originale Enrico Letta propone per assegnare un capitale iniziale ai giovani italiani.

A differenza dal prelievo fiscale dagli effetti invisibili e comunque vissuto come sgradevole imposizione, la liberalità individuale (nel caso di eventi collettivi negativi come i terremoti o le alluvioni, ma anche attraverso la cessione di quantità variabili di millesimi a questa o quella categoria professionale o ad altre iniziative eticamente lodevoli) fornisce invece una precisa sensazione di consistenza etica. Inoltre, la liberalità privata non coinvolge uno Stato che, da troppo tempo, si presenta come una insaziabile voragine di sprechi determinandone una immagine pubblica decisamente negativa invece di rinsaldarne il prestigio e le funzioni essenziali di carattere pubblico generale. Le donazioni, con o senza anonimato, sono insomma atti assai più degni che testimoniano direttamente la propensione liberale dell’uomo a prendersi cura dei suoi simili in difficoltà, rispetto ad un prelievo fiscale senza volto, che non lascia alcuna traccia morale, non fornisce alcun rendiconto né, alla fine, risolve davvero i problemi.

Ma in Italia, e anche altrove, alla base del criterio chiamato redistributivo c’è l’idea, sicuramente di sinistra ma in qualche misura anche cattolica, che l’imposizione sulla successione sia giusta in sé, ossia anche indipendentemente dal fatto che lo Stato ne abbia bisogno o che intenda farne uso per fini socialmente rilevanti e non rinviabili. Si tratta, in fondo, dell’eterna attitudine delle sinistre a ritenere la ricchezza individuale una forma di sopruso, di colpa che deve essere punita o, per i più esagitati, persino repressa. Chi sostiene queste idee è del tutto indifferente al fatto che appesantire la tassazione comporta effetti economici negativi, perché riduce la propensione ad investire, spinge a trasferire le risorse altrove e, per i meno onesti, induce all’evasione fiscale.

Ciò che gli basta è che anche i ricchi piangano puntando, a tutti gli effetti, su una società ridotta ad una valle di lacrime invece che su una società in cui anche i poveri sorridano grazie all’incremento del benessere collettivo. Un incremento che non proviene certo dallo Stato, bensì da chi ha saputo guardare avanti e, rischiando del suo, ha messo in piedi qualcosa dalla quale traggono beneficio molti altri. Chiedendo in cambio, pensate un po’, di poter mettere da parte ricchezza da lasciare ai figli perché ne facciano, sperabilmente, buon uso in futuro.

Aggiornato il 11 giugno 2021 alle ore 11:04