La finanza abbraccia la transizione ecologica?

Si è tenuta via web nella Giornata della Terra, il 22 aprile scorso, la conferenza promossa dall’Amministrazione Biden con la presenza di 40 capi di Stato per discutere misure concrete e condivise per uno sviluppo sostenibile dal punto di vista ambientale.

L’iniziativa ha rappresentato un punto di svolta nella lotta al cambiamento climatico, in quanto le misure d’intervento e la dimensione delle stesse comportano, se concretamente attuate, un cambiamento della struttura stessa dell’economia. In effetti, l’intervento di Joe Biden sul coinvolgimento dell’intera macchina governativa nell’obiettivo di riduzione delle emissioni di carbonio e delle opportunità connesse per creare nuovi posti di lavoro e, soprattutto, l’allineamento espresso non solo verbalmente, ma anche concretamente dai partecipanti alla conferenza, ha dato il senso che la scelta “verde” vada ad assumere un ruolo sempre più centrale nel panorama internazionale.

Dunque sembra di trovarsi, ed è la prima volta che ciò è palese in una conferenza sul clima, di fronte alla volontà di adottare misure concrete. Peraltro, diversamente da quanto è accaduto anche in un recente passato, gli obiettivi, oltre che ad essere concreti, sono espressi in un’ottica collaborativa di respiro globale. Fra i target concreti dell’Amministrazione Usa, annunciati nel corso del Leaders Summit on Climate, troviamo quello di riduzione del 50-52 per cento delle emissioni entro il 2030 (emissioni zero entro il 2050) e lo sviluppo di canali di supporto finanziario ai Paesi in via di sviluppo per l’implementazione di politiche in linea con il contrasto al cambiamento climatico. Così vista, in effetti, la nuova prospettiva non vede più nel cambiamento climatico solo un fattore di rischio generico, ma indica una direttrice a cui tutte le economie globali si andranno ad allineare.

Ciò ha, dal nostro punto di vista, una importanza enorme in quanto il cambio di scenario interessa (ed interesserà sempre di più) gli investitori non solo istituzionali. I dati riportati da importati studi (vedi Morningstar) hanno analizzato il patrimonio in gestione dei fondi di transizione energetica domiciliati in Europa, certificando un aumento da 4,4 miliardi di euro nel 2016 a 50,7 miliardi di euro nel febbraio 2021, con la maggior parte della crescita che ha avuto luogo nel 2020, anno in cui gli asset sono aumentati del 437,8 per cento.

Bene, l’analisi condotta certifica che l’aumento della domanda per i fondi di transizione energetica trova la motivazione più importante per gli sviluppi futuri che fanno riferimento a cambiamenti strutturali; uno di questi è, appunto, il raggiungimento della competitività in termini di costo dell’energia rinnovabile con l’energia dei combustibili fossili a cui si aggiunge la sempre maggiore chiarezza dell’allineamento sul tema nel panorama della politica internazionale.

Per altro verso, anche la regolamentazione emerge fra i maggiori fattori che guidano il trend della transizione energetica e net-zero. Per fa decollare il suo piano il nuovo presidente deve raccogliere le risorse necessarie a finanziare le sue ambiziose strategie economiche, ancorate da un’inedita stagione di investimenti pubblici e infrastrutturali da 2.300 miliardi di dollari. Le sue proposte prevedono la prima grande riforma di armonizzazione mondiale del regime delle tasse societarie, con l’obiettivo di combattere elusione e paradisi fiscali e prevedono: una tassa minima su profitti fuori dai confini, e norme che consentono ai singoli governi di rastrellare imposte legate alle vendite delle principali multinazionali in ciascun Paese.

Washington, infatti, punta in primo luogo al varo di una nuova global minimum tax, che è stata identificata ad oggi al 21 per cento, un livello più alto di quanto in passato ipotizzato nei colloqui internazionali ma sul quale il presidente americano ha bisogno di trovare consenso per evitare svantaggi competitivi o fughe all’estero di proprie imprese.

Il livello d’imposizione oggi per i profitti offshore è limitata al 10,5 per cento. La nuova, più significativa tassa minima dovrebbe in concreto obbligare le multinazionali a pagare in patria ogni differenza nelle imposte rispetto alla minum tax, vale a dire qualora all’estero fossero tassate ad aliquote inferiori. Peraltro, l’imposta verrebbe pagata distintamente per paese dove originano i profitti e non sul complesso dei profitti realizzati al di fuori del Paese.

In discussione, inoltre, sul fronte interno, l’impennata delle aliquote corporate al 28 per cento dall’attuale 21 per cento, la soglia fissata dagli sgravi firmati dal Donald Trump nel 2017, e che assieme alle strette internazionali rappresenterebbero la cassaforte dalla quale attingere per una spesa da 2.300 miliardi di dollari in dieci anni. La cosa strana è che, sotto taluni aspetti, anche i gruppi hi-tech potrebbero trovare conveniente non fare le barricate, ma contrattare. In effetti, la minimun tax, se adottata a livello globale, potrebbe risolvere le dispute su digital tax nazionali che oggi proliferano e hanno causato tensioni anche tra Stati Uniti e Europa.

Aggiornato il 30 aprile 2021 alle ore 09:38