Come precipitare nella depressione keynesiana

Recentemente su Repubblica l’ex politico Giorgio La Malfa ha scritto un articolo riguardante John Maynard Keynes (1883-1946) autore della famosa Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta pubblicata nel 1936, ottantacinque anni fa, dove il famoso economista espose le idee che sono diventate ortodossia nelle università e la pietra di paragone della gestione economica dei governi.

La “nuova economia”, così fu chiamata all’epoca, avrebbe assicurato all’umanità stabilità economica, piena occupazione e prosperità materiale, il tutto attraverso una saggia gestione della politica monetaria e fiscale da parte dei governi. Non è andata affatto così essendo oggi, l’Occidente, in bancarotta ma la Malfa pensa, invece, che Keynes possa ancora dominare la scena e farci uscire dalla crisi.

Ripercorrendo l’evoluzione del pensiero dell’economista di Cambridge, La Malfa ricorda che le sue idee partirono da una critica agli economisti classici per i quali era la libertà di mercato ad assicurare i necessari incentivi e il coordinamento di tutte le attività economiche. Keynes pensava, invece, che l’economia di mercato tendesse al sottoconsumo e alla spesa insufficiente. Per i classici i governi non avevano né la conoscenza né la capacità di dirigere gli affari economici di un Paese mentre Keynes, invece, riferendosi al disastro economico che si stava verificando durante la Grande Depressione dei primi anni Trenta era convinto che solo la guida dei governi poteva assicurare la piena occupazione. La Malfa dimentica però di ricordare che le idee dell’economista britannico erano già state testate avant la lettre, dai presidenti Herbert Hoover e Franklin Roosevelt con massicci interventi di spesa pubblica ma senza successo.

La teoria keynesiana è di una straordinaria superficialità: se l’occupazione e la produzione sono inferiori al loro massimo potenziale significa che le persone, nel complesso, stanno spendendo troppo poco in beni e servizi il che provocherà una crisi. Il governo deve pertanto intervenire per “gestire la domanda” guidando la politica monetaria e fiscale per assicurare la piena occupazione, un livello dei prezzi stabile e promuovere la crescita. Alcuni termini del dibattito possono essere cambiati nel corso dell’ultimo mezzo secolo ma la convinzione che “il governo dell’economia” sia responsabilità della politica è persistita fino a oggi. La questione allora è: come mai la teoria keynesiana è riuscita a rimanere dominante nonostante si sia tradotta, nel lungo termine, in declino economico?

La sua vitalità è dovuta a vari motivi. Innanzitutto, perché la sua applicazione ha conferito una grande influenza e prestigio alla confraternita economica. In un’economia libera non ci sarebbe molto da fare per un economista se non insegnare economia. Di sicuro non si guadagnerebbe il prestigio di essere coinvolti nella “gestione” dell’economia di un Paese. Una volta che gli economisti si sono resi conto che, a spese dello stato, potevano manipolare la società, sono tutti saltati sul carro keynesiano. La Teoria si è adattata molto bene poi, all’apparato politico la cui sopravvivenza dipende solo dalla continua applicazione di una dottrina che consente il pieno controllo degli affari economici: si è trasformata in una specie di diritto acquisito a perpetuare il mito secondo cui la politica ha la capacità di gestire l’economia. Quando lo “stimolo keynesiano” sotto forma di più spesa pubblica, più credito e più inflazione monetaria non porta al “rilancio”, non importa, i keynesiani possono sempre affermare che lo stimolo avrebbe funzionato solo se fosse stato fatto in modo più aggressivo o che l’economia avrebbe funzionato peggio, se non fosse stato per lo stimolo. Inutile discuterne, perché i keynesiani concepiscono la dottrina dello stimolo come un grande serbatoio di benefici, pronto a essere sfruttato in ogni momento.

A onor del vero, Keynes auspicava solo aumenti temporanei di spesa pubblica come mezzo per assorbire gli shock ed era contro la creazione di deficit strutturali. Ma anche se è stata estremizzata, la sua teoria è completamente sballata. Per cominciare, le leggi dell’economia agiscono, in qualsiasi circostanza, sempre allo stesso modo, quindi se una maggiore spesa in deficit rafforzasse l’economia durante le recessioni, dovrebbe anche rafforzarla durante i periodi di crescita, il che non si è mai verificato.

Per converso, se la danneggiasse in periodi buoni, la danneggerebbe anche durante le recessioni. Il punto è che non esistono leggi, che si applicano durante i periodi di crescita e leggi che si applicano durante i periodi di contrazione. In secondo luogo, il concetto che il governo possa fornire una spinta sostenibile all’economia con la spesa pubblica e che questa ha lo stesso effetto dell’investimento privato è un errore imperdonabile. Il fatto è che il governo non genera ricchezza propria che possa compensare quella insufficiente prodotta nel settore privato, poiché tutto ciò che il settore pubblico spende deve prima essere preso in prestito o sottratto a quello privato. Quindi, come può l’economia privata essere aiutata da un governo che le sottrae ricchezza?

Keynes presumeva che i governi fossero onesti, non inclini a compromessi e in grado di comprendere l’economia. Ma nell’affrontare ogni recessione successiva, hanno accumulato disavanzi sempre più grandi determinando un super-ciclo del debito globale che è durato oltre mezzo secolo e di cui, ora, una calamità pandemica ne sta segnando il disfacimento. A ogni successivo aumento della spesa pubblica e inflazione monetaria, la struttura economica si è indebolita fino a precipitare nel baratro. Ecco perché non si è mai usciti dalla Grande Recessione. Siamo invece nel bel mezzo di una “depressione keynesiana”.

Non c’è affatto da rallegrarsi che il Next Generation Eu rappresenti, come scrive la Malfa, la prova che l’Europa è tornata keynesiana perché si tratta di un altro “strumento di rilancio”, conseguenza di una serie passata di errori che hanno creato la giustificazione per successivi errori, mettendo in moto una spirale discendente, che continuerà a trascinare verso il basso l’economia e da cui non si uscirà senza un nuovo paradigma economico.

Aggiornato il 12 marzo 2021 alle ore 11:09