Meglio Aristotele

Tra le tante cose che ci ha portato il Covid, vi è l’analisi prospettiva-auspicio della riduzione-depotenziamento-annichilimento dei ceti medi e del loro ruolo nelle comunità umane. Sembra che le decadenti élite global-sinistre esorcizzino il proprio declino auspicando quello degli strati sociali meno ben disposti verso di loro. Pomposi accademici, elzeviristi mainstream, economisti di regime (e anche non di regime) profetizzano che dopo la scossa del Covid lavoratori autonomi, professionisti, artigiani, commercianti, quadri del settore privato (e anche di quello pubblico) diverranno pochi, inutili e miseri. Qualcuno sostiene idee del genere basandosi sul darwinismo sociale, altri sulle profezie marxiste, altri scomodano la “mano invisibile”. Tutti sembrano contenti dell’auspicato evento: ma non tengono conto di quanto “pesino”, soprattutto se si passa da criteri economici a quelli politico-sociali i ceti medi; perché questi sono stati spesso considerati l’ossatura della società, i garanti dell’equilibrio politico-sociale sul quale ogni comunità durevole – ma soprattutto quelle democratiche – si fonda.

Già Aristotele – sostenitore dello Status mixtus, cioè di costituzioni che tenessero insieme elementi di più forme “pure” – lo sosteneva; si chiede infatti qual è la costituzione migliore, quale “forma di vita partecipata”, e fa ricorso al “giusto mezzo”. Dove non c’è il giusto mezzo dei “ceti intermedi” ma prevalgono i troppo ricchi o i più poveri, si creano, per così dire, problemi di governabilità. “Si forma quindi uno stato di schiavi e di despoti, ma non di liberi, di gente che invidia e di genere che disprezza, e tutto questo è quanto mai lontano dall’amicizia e dalla comunità statale, perché la comunità è in rapporto con l’amicizia, mentre coi nemici non vogliono avere in comune nemmeno la strada” (il corsivo è mio). E conclude che questo è l’ordinamento migliore: “È chiaro, dunque, che la comunità statale migliore è quella fondata sul ceto medio e che possono essere ben amministrati quegli stati in cui il ceto medio è numeroso e più potente, possibilmente delle altre due classi, se no, di una delle due, ché in tal caso aggiungendosi a una di queste, fa inclinare la bilancia e impedisce che si producano gli eccessi contrari”.

Nell’età moderna il rapporto tra ricchezza e istituzioni è spesso considerato analogamente. Una particolare menzione merita Gaetano Mosca che nell’analisi della classe politica e del regime liberale (lo “Stato rappresentativo”) scrive che “il principio liberale trova le condizioni migliori per la sua applicazione quando il corpo elettorale è composto in maggioranza da quel secondo strato della classe dirigente che forma la spina dorsale di tutte le grandi organizzazioni politiche”. Karl Marx e Friedrich Engels vedono invece i ceti medi, classi superate dallo sviluppo capitalistico; non si pongono il problema della democrazia (in senso classico) perché questa come ogni regime politico è destinata a sparire con la realizzazione della società comunista. È un pensiero ricorrente quindi che, ai fini dell’ordine politico sociale, ancor più in comunità democratiche, è decisiva l’esistenza di un ceto medio che garantisca l’equilibrio politico e sociale (e così moderi la lotta politica) e da cui viene reclutata (parte) della classe dirigente.

Ed è quindi quanto mai curioso che non sia considerata la funzione politica del “giusto mezzo” nelle società umane e di come la decadenza di questo apra a scenari di lotta aspra e dissoluzione istituzionale. Probabilmente va ascritto, almeno in buona parte, alla tendenza a pensare il criterio economico per valutare il buon governo prevalente su ogni altro; ed ancor più che un risultato quantitativamente “pagante” per tutti debba essere apprezzato anche da parte di coloro che pagano il conto. Ma in politica non è così: vale ancora il giudizio di Friedrich List (da me spesso citato) che giudicava la propria come economia politica perché teneva conto dell’interesse della comunità, mentre quella di Adam Smith era economia cosmopolitica perché considerava quanto giovava all’homo oeconomicus, astratto e distaccato da ogni legame d’appartenenza politica e sociale.

In effetti, è proprio del pensiero politico che l’interesse della comunità organizzata in Stato e non quello dell’umanità sia da conseguire. In primo luogo, riguardo all’equilibrio del sistema, senza il quale quello all’esistenza viene, prima o poi, ad essere compromesso.

Aggiornato il 18 febbraio 2021 alle ore 11:17