Il mito degli stakeholders

Negli ultimi anni è stata promossa una propaganda aggressiva contro il “capitalismo degli azionisti” basata sul principio che lo scopo dell'impresa non dovrebbe più essere solo quello della redditività ma dovrebbe essere allargato agli interessi di tutto uno spettro di componenti eterogenee, gli stakeholder, come dipendenti clienti, fornitori, comunità locali, ambiente e stato. Insomma, le imprese dovrebbero essere “socialmente responsabili” verso tali entità. Nel 2018 la Business Roundtable, un influente gruppo di quasi 200 grandi società americane pubblicava un documento sulla revisione degli scopi aziendali in tal senso. Nel dicembre 2019 il World economic forum diffondeva un manifesto per esortare le aziende a passare dal modello tradizionale di “capitalismo degli azionisti” al modello di “capitalismo degli stakeholder”. Nello stesso periodo il Financial Times apriva una campagna, tutt’ora in corso, con lo sloganCapitalism: time for a reset, per incoraggiare i leader aziendali a promuovere il nuovo modello di capitalismo.

Il concetto di stakeholder non è nuovo essendo stato introdotto nel libro, The Modern Corporation and Private Property di Adolf Berle and Gardiner Means pubblicato nel 1932, dove si affermava che le grandi aziende avrebbero dovuto assumere dei manager professionisti per contemperare le esigenze di “diverse parti interessate”. Emerge così il “capitalismo manageriale” precursore di quello degli stakeholder e caratterizzato dalla separazione della gestione dalla proprietà, transizione foriera di importanti conseguenze per capi di azienda, investitori e responsabili politici. L’idea rimase in voga per quarant’anni anni fino a quando il premio Nobel, Milton Friedman, vi si oppose sostenendo che la separazione tra manager e azionisti avrebbe consentito ai primi di perseguire priorità personali a danno dei secondi che investono i capitali nell'impresa e perseguono il profitto. Friedman aveva ragione: l’economia degli stakeholder si rivelò un disastro portando, nel periodo 1937-1982 a una delle peggiori performance del mercato azionario. Tuttavia, l’idea aveva messo radici e si sviluppò con l’avvento dei programmi sociali. Bombardati da richieste di iniziative “socialmente responsabili”, il management si trovò sempre più sottoposto a pressioni politiche compromettendo la missione aziendale: il perseguimento del profitto. D’altra parte, Friedman mitizzando troppo questa categoria economica dette adito agli oppositori di denunciare gli “eccessi” guadagnati dalle aziende come attributo negativo per l'intera società, cosicché il concetto di stakeholder è stato incorporato nelle rivendicazioni sociali contro i ricchi da parte dei non abbienti.

Purtroppo, neppure oggi è ancora chiaro che il profitto, per le imprese, non è lo scopo ma una necessità: è ciò che consente loro di raggiungere il vero obiettivo: creare valore nel mercato in cui operano poiché per avere clienti bisogna produrre a loro vantaggio. Il profitto dunque non è il fine ma la ricompensa per operare bene in modo da soddisfare le loro esigenze. Profitto e perdite, nel sistema capitalista, hanno la funzione di indicatori: segnalano se le risorse sono state ben utilizzate o sprecate. Ogni volta che ci troviamo di fronte a esperienze di successo, come, ad esempio nel caso di Apple e Google, scopriamo un immenso valore prodotto nel mercato. Creando valore per i loro clienti e arricchendone la vita, tali aziende hanno creato valore per sé stesse e per la società la quale è proprio rappresentata dall'intero spettro degli stakeholders. Le imprese di successo non devono concepire prodotti e servizi per fare profitti; devono. al contrario, fare profitti per concepire prodotti e servizi sempre migliori, ciò che consente loro di evolversi, di adattarsi e prosperare mantenendo posti di lavoro retribuiti e sostenendo nuove generazioni di occupati. Queste finalità sono la loro vera e unica responsabilità sociale e non ne esistono di altre. Senza l’accumulo di profitti necessari per crescere e fare fronte a crisi cicliche, nella società prevarrebbe un’economia di sussistenza e disoccupazione, cioè il sottosviluppo. Non ci sono dunque altre responsabilità oltre a quella di creare valore per il mercato. Chi afferma che il compito delle imprese è servire obiettivi “al di là della mera e egoistica ricerca dei profitti”, pensa evidentemente che fare profitto sia alla portata di tutti ignorando che competere nel mercato è impresa titanica. La durissima competizione economica per soddisfare il mercato è l’essenza del capitalismo e il conseguimento del profitto opera a vantaggio di tutti. Non la può pensare così, ovviamente, chi vuole minare il sistema del libero mercato, convinto che il profitto derivi da relazioni politiche piuttosto che dal soddisfacimento dei consumatori.

Bisogna riconoscere che inventandosi lo “stakeholderismo” per trasformare l'impresa tradizionale in quella composta da parti interessate e vestendola da “etica degli affari”, gli ideologi collettivisti sono stati creativi nello scoprire nuovi modi per minare il capitalismo azionario. Gli azionisti, che forniscono il capitale all’impresa e ne sopportano i rischi dovrebbero essere solo una parte di una collezione eterogenea di gruppi con nebulosi obiettivi di “interesse pubblico”. E non ci sarebbe davvero limite alla partecipazione di questi gruppi dal momento che quasi chiunque potrebbe rivendicare di essere stakeholder vantando pretese e conoscenze non necessarie all'azienda di cui richiede di essere controparte. Indipendentemente dalle competenze, dall’istruzione e dall’esperienza necessarie per creare valore nel mercato avrebbero voce in capitolo nelle aziende, uomini e donne, bianchi, neri, immigrati, transgender, gay, ambientalisti e altre varietà di specie con lo scopo di limitare e obbligare le imprese a servire una serie di obiettivi diversi da quelli per cui erano state create dai proprietari su cui però ricadrebbero le conseguenze di decisioni collettive scellerate.

L’economia degli stakeholder è solo l’ultima etichetta del socialismo che cerca di scardinare i fondamenti del libero mercato riducendo le imprese a vacche da mungere per alimentare scopi regolatori e redistributivi, mirando a diluire i diritti di proprietà degli azionisti. In sostanza, lo stakeholder dichiara che non sei proprietario dell’attività che pensavi fosse tua. No, la sua giustificazione per esistere e operare deve essere trovata nella sottomissione a lui che stabilisce gli obiettivi “socialmente responsabili” per l’utilizzo etico della tua proprietà. È sconcertante che la nozione di capitalismo degli stakeholder sia stata promossa dagli titani del Big business come firmatari del documento della Business Roundtabl e da un giornale come il Financial Times. Purtroppo, tale aberrazione è conseguenza della politicizzazione di ogni aspetto della società che caratterizza il totalitarismo dell’epoca attuale e che è a sua volta figlia della crescita del potere arbitrario dello Stato, per cui anche imprenditori, manager, uomini d'affari e giornalisti vengono sempre di più posti nella posizione simile a quella di ostaggi che tentano di compiacere i loro padroni, anticipandone i desideri e cercando di gratificarli senza neppure ricevere ordini.

Aggiornato il 18 dicembre 2020 alle ore 10:24