La Fiat si riscopre “italiana”

Grazie al quotidiano economico-finanziario Milano Finanza abbiamo appreso di una richiesta di Fca Italy, ramo italiano del Gruppo Fiat-Chrysler Automobile, di una garanzia pubblica su un prestito da 6,3 miliardi di euro. Il gruppo automobilistico si è mosso in conformità alle regole comunitarie e sulla scorta delle indicazioni contenute nel “Decreto liquidità”. La normativa adottata in emergenza sanitaria stabilisce che le imprese possano ottenere prestiti dal circuito delle banche, garantiti dallo Stato fino all’80 per cento dell’ammontare richiesto, attraverso la Sace Spa del gruppo Cassa depositi e prestiti, e per un’esposizione non superiore al 25 per cento del fatturato consolidato l’anno precedente. Bilanci alla mano, Fca raggiunge la cifra stratosferica richiesta. Il prestito, che sarebbe restituito in tre anni, verrebbe finalizzato all’apertura di una linea di credito destinata al sostegno di tutta la filiera produttiva dell’automotive in Italia, che cuba all’incirca 10mila tra piccole e medie aziende legate a doppio filo con i destini del gruppo industriale ex-torinese.

Inoltre, il prestito andrebbe ad alleggerire la perdita di liquidità, causata dalla crisi profonda del comparto, del colosso automobilistico che in Italia ha 16 stabilimenti e 26 poli dedicati alla ricerca e sviluppo, per un totale di occupati di 55 mila unità, alle quali il vertice dell’azienda non manca di aggiungere i 200 mila posti di lavoro dell’indotto. Siamo chiari: l’operazione è assolutamente legittima. La concessione della garanzia, per la misura eccezionale del suo ammontare, dovrà essere autorizzata dal ministro dell’Economia e delle Finanze. Una parte della politica ha sollevato critiche per il fatto che il gruppo Fiat-Chrysler non sia tecnicamente italiano. Pur mantenendo in Italia parte della produzione, Fca ha trasferito la sede legale in Olanda e quella fiscale in Gran Bretagna. Lo scenario è anomalo. Una grande azienda, nata e cresciuta in Italia, da cui ha ricevuto nel passato ogni aiuto, beneficio e vantaggio possibile, decide legittimamente di andarsene all’estero per l’evidente opportunità di sfruttare la legislazione e la fiscalità di favore che altri Paesi accordano. Adesso che i conti non quadrano, i grandi capitalisti globali si ricordano della piccola Italia e battono cassa. Come era scontato che accadesse, i primi a dichiararsi favorevoli perché lo Stato conceda la garanzia sono stati i sindacati.

Loro che ragionano con il paraocchi non hanno avuto dubbi. Ma non hanno valutato a sufficienza i contraccolpi che una tale operazione finanziaria avrebbe sulla disponibilità di credito alle imprese degli altri settori economici. Non bisogna essere grandi economisti per prevedere gli effetti negativi sul flusso del credito provocati da un intervento che porta via dal mercato in un colpo solo liquidità per 6,3 miliardi di euro. È vero che il Governo può porre delle condizionalità alla concessione della garanzia del tipo: divieto di distribuzione dei dividendi a finanziamento in corso. Ma si tratta di ammennicoli rispetto al problema della non italianità dell’azienda. Nonostante le rassicurazioni una parte della sinistra insorge chiedendo a Fca, come condizione pregiudiziale per l’ottenimento della garanzia, il rientro in Italia della sede fiscale e legale dell’azienda. La richiesta ha un senso logico: lo Stato si prende cura delle imprese che gli pagano le tasse sui profitti realizzati, non di quelle che versano altrove le scarse gabelle imposte. A rigore, i titolari di Fca si sarebbero dovuti rivolgere a Londra o ad Amsterdam.

A rendere lo scenario più complicato c’è poi la questione che Fca, in quanto gruppo industriale con una presenza autonoma sul mercato globale, ha vita breve. Entro 12 mesi si concluderà l’iter di fusione di Fca con il gruppo industriale francese Peugeot (Psa) che detiene anche i marchi automobilistici di Citroën, Opel, Ds, Vauxall Motors. Viste le dimensioni del gruppo transalpino più di una fusione si tratta di un’incorporazione dell’insieme più piccolo, Fca, in uno più grande, Psa. Prova ne è il fatto che se per i primi anni il presidente del nuovo gruppo sarà l’erede di casa Agnelli John Elkann, l’amministratore delegato che guiderà operativamente l’azienda sarà Carlos Tavares, amministratore delegato e presidente del Consiglio d’amministrazione di Groupe Psa. Eppure, Psa non è un’azienda privata qualsiasi. Nel capitale azionario è presente lo Stato francese con una quota del 14,1 per cento. Cosa che non è mai accaduta con Fiat, nonostante i denari e il patrimonio che lo Stato italiano ha girato negli anni alla casa torinese. Ora, il problema non è solo morale ma è strategico.

Immaginate il quadro complessivo: Il Governo italiano concede una garanzia per 5 miliardi di euro a un gruppo industriale che ha sede fiscale a Londra, sede giuridica nei Paesi Bassi ed è prossimo ad essere assorbito da un mega gruppo industriale transalpino di cui è azionista il Governo francese che, peraltro, in casa propria ha varato una normativa stringente sui benefici pubblici alle aziende che hanno trasferito all’estero la propria sede. Nulla garantisce la certezza, nel tempo, del mantenimento dei livelli occupazionali ai lavoratori italiani del gruppo. Una volta ripagato il debito e rimesso in piedi il fatturato, i vertici aziendali potrebbero lasciare l’Italia chiudendo gli impianti e dirottare la produzione in Paesi dove è più basso il costo della manodopera. Lo Stato italiano avrebbe procurato un vantaggio all’impresa privata ricavandone una perdita secca in termini occupazionali e di partecipazione alla composizione del Pil nazionale. Nel frattempo, le banche interessate all’erogazione del mega prestito a Fca fanno la faccia feroce ai piccoli e micro imprenditori negandogli i quattro soldi necessari alla ripartenza dopo il Coronavirus. Fortuna che la Cgia di Mestre e Carlo Calenda, che marxisti non sono, abbiano detto qualcosa in proposito.

L’errore resta che non sia la destra nel suo insieme a parlarne. Sconcerta il suo assordante silenzio. Bisognerebbe pur trovare il coraggio di mettere in discussione il modello liberista, in particolare la sua versione cacio e pepe, “all’italiana”, dei nostri capitani coraggiosi per i quali il precetto a cui sono affezionati è: socializzare le perdite, e i rischi, privatizzare i profitti. Perché non dire, da destra, che accomodarsi nei paradisi fiscali per risparmiare sulle tasse in nome del profitto per poi chiedere la garanzia pubblica per non rischiare il proprio capitale non è cosa “liberal” ma un’autentica nefandezza? Dove sono finiti i bei discorsi sull’imprenditore che rischia? Qui si vedono solo grandi capitalisti che si parano le terga con la mano pubblica. Lo Stato imprenditore, com’è giusto, non piace; invece, lo Stato garante è graditissimo. Una riflessione critica su alcuni modelli imprenditoriali, generati da dinastie industriali ottocentesche, non la si dovrebbe lasciare nelle mani della sinistra ma rivendicarla alla competenza di una destra liberale, depurata del dogma liberista. O il concetto di interesse nazionale prevalente è tabù per i liberali di questo Paese?

Aggiornato il 18 maggio 2020 alle ore 11:00