Quantitative Easing: non è tutto oro quello che luccica

Il meeting di Rimini ha avuto l’effetto di riaccendere le polemiche sulla politica monetaria della Banca Centrale e, sull’efficacia o meno, del c.d. quantitative easing (QE), meglio conosciuto dai tecnici con il (non meno oscuro) termine di “alleggerimento quantitativo”. Il QE è definito come uno strumento non convenzionale di politica monetaria espansiva dalle banche centrali,  ma sugli effetti la dottrina non è concorde anche perché la verifica rispetto agli obbiettivi (stimolare la crescita economica, la produzione, l’occupazione e l’inflazione) non dà, né a livello teorico né pratico, risposte univoche.

Da ultimo, essa è stata adottata soprattutto come supporto agli Stati che hanno difficoltà a sostenere ed a rinnovare il proprio debito pubblico e, da qui, le tante critiche, in particolare da parte dei tedeschi, mosse all’attuale Presidente della Banca Centrale, il nostro Draghi.

Storicamente, le operazioni di Quantitative Easing sono apparse in Giappone per fronteggiare la crisi bancaria, già verso la fine degli anni Novanta (poi ripresa nel 2014) e negli Stati Uniti, nel 2009, in particolare allo scopo di acquistare i titoli federali in default e quelli titoli “tossici”, come i mutui subprime. Insomma, una politica monetaria adottata in casi estremi.

Il debutto di tale misura di politica monetaria si è avuto in Europa nel marzo del 2015, stante l’inefficacia delle operazioni di mercato aperto, e cioè di acquisto e  vendita di titoli di stato realizzato, anche in modo audace, attraverso i famosi piani  long term refinancing operation (LTRO) e targeted long term refinancing operation (TLTRO) dove, il secondo, ha la novità della restituzione dell’anticipazione anche prima dei tre anni, se la banca non finanzia l’economia reale.

Tuttavia, tali operazioni prevedono comunque  la restituzione a scadenza del prestito ottenuto e, dunque non costituiscono una creazione di base monetaria (ovvero più moneta all’economia) assicurata, invece, appunto dal QE In definitiva, con il quantitative easing (in altre parole, con più moneta nel sistema) si dovrebbero ottenere una serie di vantaggi che sono: più liquidità per le banche, alleggerimento del debito pubblico, più inflazione (o meglio sostegno dei prezzi).

Vediamo come e perché. Quanto alla maggiore liquidità per le banche, che risulta dall’accesso diretto di queste alla banca centrale, si osserva che può costituire l’occasione per le banche di finanziarie le famiglie e le imprese. Le banche, tuttavia, potrebbero ritenere troppo rischioso prestare quel denaro, in particolare, nei periodi di difficoltà economica. In tal caso il denaro creato non arriva all’economia reale e, dunque, i positivi effetti della manovra si potrebbero ricondurre al solo alleggerimento del debito pubblico, che segue al naturale effetto di incremento dei prezzi dei titoli di stato acquistati dalla banca centrale (ricordiamo che se aumenta il prezzo di un titolo ne cala il rendimento).

Un effetto indiscutibilmente positivo, peraltro, dovrebbe essere quello sull’inflazione. Sappiamo che prezzi in discesa non permettono alle imprese di coprire i costi, e dunque hanno come conseguenza la riduzione dell’occupazione e degli investimenti. Dunque sostenere i prezzi è certamente un obbiettivo da tenere presente. Ma anche qui, a ben vedere, si tratta poco più di una illusione monetaria, che nasconde una bassa domanda di beni di consumo ed investimento e di servizi.

Un possibile effetto negativo, inoltre, è riscontrabile, per altro verso, sull’effetto che tale politica può avere sui mercati finanziari, innestando possibili bolle speculative; in effetti, la diminuzione cennata del rendimento dei titoli di stato (a seguito del quantitave easing) spiazza gli investimenti verso mercato di borse alimentando il corso dei titoli azionari.

Insomma, come più volte evidenziato anche su queste pagine, non è tutto oro la politica di “alleggerimento quantitativo” e di questo, a parte facili polemiche ed altrettanto inutili campagne personalistiche, dobbiamo tutti essere consci. Peraltro, già lo stesso Draghi ha più volte sottolineato come il QE non sia sufficiente a garantire una robusta ripresa economica, ma necessita di una più ampia politica di investimenti anche pubblici.

 

Aggiornato il 27 agosto 2019 alle ore 13:49