Alitalia: un “No” che fa contenti tutti

Sulla vicenda Alitalia bisogna dirsi la verità. L’esito negativo del referendum indetto tra i lavoratori della ex compagnia di bandiera sul prendere-o-lasciare il preaccordo sottoscritto dall’azienda con i sindacati confederali e propiziato dal governo, ha fatto tirare a tutti un grosso sospiro di sollievo. Anche se, a telecamere accese, qualcuno sostiene il contrario.

Siamo onesti: sotto sotto questo piano di salvataggio non lo vuole nessuno. Alitalia è un bubbone scoppiato. La compagnia aerea di bandiera costa troppo, non è competitiva, ha un buco di bilancio da paura. Di chi la colpa? L’elenco è lungo. Dopo gli anni delle allegre gestioni che cumulavano debiti, nel 2008 fu Silvio Berlusconi a spendersi in prima persona affinché Alitalia non venisse svenduta agli stranieri. Non per un’anacronistica difesa di campanile, ma per una logica valutazione sull’importanza strategica della compagnia nel quadro della tutela degli interessi nazionali. Berlusconi non aveva torto nel pensare che se Air France-Klm avesse messo le mani su Alitalia avrebbe certamente lavorato per deviare i flussi turistici dall’Italia verso il Paese transalpino e non viceversa. Su questa fondata argomentazione il neonato governo di centrodestra chiuse la porta ai pretendenti esteri e s’inventò la cordata dei “capitani coraggiosi” made in Italy. Purtroppo quei “campioni” avevano a cuore solo le proprie le tasche. Morale della favola: nonostante i tanti soldi messi dalla mano pubblica per ripianare i debiti, dirottati in una “bad company” costituita ad hoc, si è rifatto il buco nei conti tanto profondo da richiedere l’intervento di un socio straniero che rimettesse a galla la barca di nuovo a rischio affondamento.

Nel 2014, Etihad Airways, la compagnia aerea degli Emirati Arabi, rileva il 49 per cento del pacchetto azionario di Alitalia - Società Aerea Italiana S.p.A. L’ingresso non avviene a mani vuote. Gli arabi versano una quota di 500 milioni di euro e successivamente pompano altri 100 milioni nelle casse della società. Per dimostrare che credono nel futuro della compagnia, alla fine dello scorso anno, convertono obbligazioni detenute per 210 milioni di euro in semi-equity, che sono forme di finanziamento a metà strada tra il capitale di rischio e il debito primario assistito da garanzie. Sembra arrivata la svolta: con un partner strategico forte la compagnia italiana potrà darsi un piano industriale di ampio respiro. Nuovi aeromobili, nuove rotte di lungo raggio, slot più agevoli per pianificare strategie commerciali maggiormente aggressive rispetto alla concorrenza. Non accade niente di tutto ciò. Del piano investimenti sui velivoli non vi è traccia. Le promesse di sostegno fatte da James Hogan, Ceo di Etihad, si sono fermate alla disponibilità di due soli aerei. La guerra sulle rotte di lungo raggio, dove si fanno realmente i quattrini, non è neppure cominciata. Al contrario, Alitalia in cielo è impantanata in una lotta all’ultimo sangue contro le compagnie low-cost sulle tratte a breve e medio raggio e in terra a combattere l’alta velocità ferroviaria. Partite perse in partenza per l’incolmabile disparità di costi.

Oggi il commissariamento della compagnia che, con ogni probabilità, andrà in liquidazione trascinando con sé la crisi di tutto l’indotto. Migliaia di posti di lavoro bruciati e tanta cassa integrazione alle viste per attenuare il danno sociale. Al desco di Alitalia, a gozzovigliare, ci si sono accomodati tutti: politici, imprenditori, sindacalisti. E gli italiani puntualmente hanno pagato il conto dei bagordi. Ora che il piatto pubblico piange, la festa è finita. Probabilmente ci sarà lo spezzatino degli asset. La compagnia verrà spacchettata e venduta a pezzi ai concorrenti che sono puntati come falchi in attesa di avventarsi sulla facile preda. La spolperanno fino all’osso: aerei, slot, pezzi di ricambio.

È doloroso che finisca così perché, come aveva intuito a suo tempo Berlusconi, il sistema-Italia riceverà un danno enorme dalla perdita del controllo della variabile-trasporto aereo nella costruzione dell’offerta turistica. Ma tant’è. Non è più tempo di buttare altri denari nel pozzo senza fondo di un baraccone mal gestito che perde 50mila euro all’ora. Come italiani, certo, non c’è da andarne fieri.

Aggiornato il 23 giugno 2017 alle ore 13:35