Debito senza frontiere

Secondo le ultime stime del Fondo Monetario Internazionale il debito globale del settore non finanziario ha raggiunto i 156 trilioni di dollari, il doppio dell’economia mondiale. Includendo il debito finanziario si supera la cifra impressionante di 230 trilioni, più del triplo del Prodotto interno lordo mondiale. La maggior parte di questo debito è improduttivo perché finanzia consumi o investimenti che non generano flussi neppure sufficienti per ripagare gli interessi sui capitali prestati. È debito inesigibile che invece di essere liquidato è stato rifinanziato da governi e banche centrali.

Già da molto tempo è stata quindi superata la soglia della saturazione del debito, quel limite oltre il quale il debito cresce più velocemente del reddito collettivo, non può più essere ripagato e il suo peso eccessivo sopprime la crescita. Non è tanto il debito in sé o il suo rapporto con il Pil ad avere importanza, ma la sua qualità, definita dal rapporto tra ogni incremento e la sua contribuzione al prodotto nazionale: quanto reddito incrementale viene creato da ogni unità di debito incrementale. Rapporto fondamentale, perché definisce la frontiera oltre la quale non solo più debito non produce nulla ma sottrae reddito all'economia. Oltre questo limite inizia il baratro della depressione.

Il ragionamento da fare è molto semplice. Per un ente che si indebita, rilevante è il rapporto tra due incrementi: quello tra l’aumento del reddito e quello del debito. Il reddito incrementale misura la produttività marginale del debito. Se il rapporto è maggiore dell’unità, significa che il debito produce un reddito che lo ripaga. Se 2 euro di debito ne producono 4 di reddito, la produttività marginale è 2. Con una redditività marginale positiva e costante nel tempo, il debito si autoliquida e se l’ente in questione è un’impresa può aumentare la capacità produttiva e distribuire dividendi. Tuttavia, per l’inflessibile legge dei rendimenti decrescenti (sconosciuta agli economisti keynesiani) per ogni euro di debito incrementale, il prodotto risultante decresce progressivamente fino al punto in cui ogni incremento di debito non produce più reddito, ma perdita. La produttività marginale da positiva diventa negativa quando il rapporto fra i due incrementi scende al di sotto dell’unità. Se, ad esempio, diventa ½, significa che l’impresa per produrre 1 euro deve indebitarsi di 2. Utilizzando più risorse di quelle che deve creare, l’impresa vive al di sopra dei propri mezzi e finisce col fallire.

La creazione di debito ha dunque una giustificazione economica fino a quando genera redditività incrementale, cioè fino a quando il rapporto tra incremento di reddito e di debito è superiore all’unità. Lo stesso vale per un Paese, con la differenza che, in questo caso, non si indebita solo il settore privato ma anche quello pubblico. Ma nel settore pubblico la produttività marginale del debito è sempre negativa: un incremento del debito totale di un euro non si riproduce mai nella forma di un equivalente incremento di un euro di reddito nazionale. Chi la pensa diversamente si ponga la domanda: quando mai avviene che l’incremento del debito, il deficit, si auto-rimborsi? Ogni dose in più di debito è progressivamente dannosa, serve solo a finanziare perdite e, invece di aggiungere risorse all’economia, le detrae. La produttività marginale negativa è segno di catastrofe economica imminente.

Consideriamo l’Italia, il cui debito è circa il 130 per cento del Prodotto interno lordo. Ogni euro prodotto è quindi associato a 1,30 euro di debito. Ora la prima cosa da osservare è che poiché il settore pubblico rappresenta il 50 per cento dell’economia complessiva, il debito dello Stato grava per il 260 per cento (130x2) sulla totalità che produce che, per creare un euro di Pil, deve indebitarsi in media per 2,60 euro. Con una produttività marginale negativa, l’economia divora letteralmente se stessa: solo gli interessi sul debito, infatti, crescono più dell’incremento del Pil e man mano che il debito cresce sempre più risorse sono distolte dagli investimenti. In una situazione in cui l’economia, invece di dividendi, produce perdite, è vano continuare a ripetere che l’Italia “può crescere” o “può farcela”. Ovviamente lo stesso ragionamento vale per ogni altro Paese.

La seconda cosa da osservare è che il Pil non misura affatto la ricchezza prodotta. Il Pil è un aggregato monetario che misura il risultato finale di attività produttive e non produttive senza riguardo all’efficienza. Se per produrre una pagnotta si usa un chilo di farina, il Pil misura il prodotto finale, la pagnotta, ma non lo spreco del prodotto intermedio per produrla. Ma il peggio è che le spese dei governi vengono contabilizzate come produttive mentre rappresentano sottrazioni di ricchezza. Ad esempio, due anni fa, i media esultavano per la “ripresa americana” segnalata da un incremento del Pil statunitense che alla luce dell’analisi si rivelò in maggior parte costituito dall’aumento delle spesa sanitaria imposta dall’Obamacare e da quella per l’aumento di posti di lavoro nella burocrazia federale, entrambe finanziate dal debito, mentre nello stesso periodo numerose aziende chiudevano. Dunque, aumenti nominali di Pil possono significare anche riduzioni di ricchezza totale. Forse questa è la cosa meno intuitiva da afferrare: nell’economia, il denaro che passa da una mano all’altra, non trasferisce solo ricchezza, ma anche perdita ma entrambe si sommano nell’aggregato monetario costituito dal Pil. Sottoposta alla lente d’ingrandimento, la situazione globale si rivelerebbe assai peggiore di quella descritta dal Fondo Monetario Internazionale.

Data la dimensione del debito mondiale che, guarda caso, è cresciuta di pari passo con quella dei governi, non esiste un modo plausibile per ripianarlo, neppure usurpando il patrimonio dei contribuenti, il che lo si sta già facendo ma accelerando il declino economico. Pertanto arriverà il momento in cui il debito, non potendo più essere socializzato, cioè assegnato ai vari settori produttivi dell’economia, dovrà per forza essere eliminato con default a catena. Ma allora il termine adatto per designare lo stato dell’economia non sarà più recessione ma “depressione”.

Aggiornato il 01 aprile 2017 alle ore 18:22