Fare industria in Italia è una grande impresa

La sorpresa con cui stampa ed addetti ai lavori hanno accolto la notizia che l’Inter è stata acquistata dai cinesi e il Milan è sulla stessa strada è sconcertante. Quasi l’Italia non fosse da almeno un decennio il supermarket per lo shopping di gruppi industriali e finanziari delle nazioni che contano. Quasi che l’Italia non avesse ottenuto la costituzione del G7 per non rimanere fuori dal club economico che conta pur continuando a non contare nulla. Come nell’Ue di Merkel, Hollande (e Cameron) e prima di Schroeder, Sarkozy (e Blair).

Le due squadre di calcio milanesi offrono semplicemente conferma di quanto sapevamo, ossia che in Italia non esiste più, se mai è esistita, una imprenditoria privata capace di tenere in sede internazionale. La notizia di oggi è storia di sempre. Prima della Seconda guerra mondiale l’Italia era rurale ed analfabeta così, dopo la disfatta del Fascismo e la vittoria della Resistenza, l’Esarchia sottoscrisse insieme alla Costituzione repubblicana un patto. Quel patto destinò i soldi del Piano Marshall a case d’abitazione e riforma agraria invece che ad infrastrutture ed industrie come in Germania e Giappone. Quel patto partorì anche uno Stato interventista in economia tale da rendere necessaria una Confindustria pubblica: l’Intersind. Eppure si era consapevoli del rischio che una presenza lunga e capillare dello Stato in economia potesse strozzare l’industria privata, drogare il costo del lavoro e favorire liaisons dangereuses.

La verità è che con il patto si perseguiva un obiettivo di potere: sfruttare la debolezza dell’imprenditoria italiana per statalizzare l’economia del Paese e creare una classe manageriale pubblica di cui la politica deteneva le sorti e decideva i destini. Quanto al socialismo industriale e finanziario che inseguiva per conservare la pace sociale, si è rivelato un fallimento. Quel patto non ha difatti risparmiato violenza, sociale e politica, ai figli del dopoguerra e un futuro di debiti da saldare ai suoi nipoti.

Ai tempi il calcio sembrava un oasi felice. Alla autorevolezza della Nazionale e dei club calcistici di Milano faceva difatti riscontro la debolezza del sistema produttivo italiano, la quale si manifestò subito dopo il finto boom industriale proprio quando Milan e Inter si affermavano nel panorama calcistico internazionale. Le famiglie Piaggio, Riva, Lancia, Zoppas, Merloni, Lauro, Mondadori, Rusconi, Olivetti insieme a molti altri inciamparono in disastri e quanti non si salvarono con ridimensionamenti vistosi divennero aziende di Stato.

Alla resa di conti la modernizzazione della produzione tradizionale privata avvenuta tra il 1959 e il 1963 diede qualche risultato solo nel Veneto con l’industria manifatturiera e nel Piemonte con l’industria meccanica. E nel centrosud con la devastazione urbanistico-edilizia dell’intero Paese da parte di palazzinari aiutati dall’assenza di programmazione e controlli e agevolazioni fiscali.

Anche la Fiat si salvò più volte grazie agli interventi statali e il valore di manager estranei alla proprietà come Valletta, Ghidella, Romiti e infine Marchionne. Il passaggio dalla lira all’euro ha scritto l’epitaffio su molti istituti di credito ma anche sull’agroalimentare italiano (Algida, Sorbetteria Ranieri, Riso Flora, Bertolli e Confetture Santa Rosa, Perugina, Sasso, Pezzullo, Italgel Gelati, Motta, Sanpellegrino, ecc.) e sul made in Italy (Valentino, Fendi, Gucci, Bulgari, Pomellato, Brioni, Loro Piana). Chimica e siderurgia fanno storia a sé. Un semplice click su Internet conferma che dal 2008 al 2012 le aziende italiane passate in mani straniere sono 437. Perché dunque meravigliarsi che le due squadre italiane più conosciute nel Mondo passino ai cinesi.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 19:28