Parigi val bene una messa:  quella dello Stato

In Europa siamo stati abituati ad una struttura ontologica conoscitiva particolare, ovvero che tutto resti sempre uguale, e che ogni accadimento di ciò che è già, e di ciò che potrà essere, si adegui a questa struttura. La pace perpetua, la pax commerciale, di cui scriveva Kant, è stata soltanto un desiderio, quello degli europei sazi, figli dei boom culturali, economici, tecnologici della modernità e della post-modernità. Ma le cose, invece, cambiano. Il problema è che oggi ogni cambiamento è veloce, repentino, e non dà il tempo alle vecchie generazioni di adeguarsi. Tutto ciò che ancora non esiste doveva adeguarsi all’asserto che “non può cambiare nulla”; l’esistenza di un Dio, le leggi logico-sociali, l’opulenza commerciale di un sistema. La contraddizione che va a costituirsi è che nessuna struttura è eterna e, in questo caso, nulla è immutabile se non nella nostra mente adagiata sulla positività della realtà.

Come ho già detto, non sono tanto i cambiamenti e le crisi a dover spaventare, quanto all’aver costruito una società così accelerata in cui il cambiamento è così rapito da non poter essere “parato” dal lento scorrere del tempo. Ogni evoluzione si annulla in presenza di un asteroide.

L’aver lavorato, com’è accaduto negli ultimi nove anni, nel settore privato, mi ha portato, da un lato, a conseguire con più fatica taluni traguardi accademici e di studio, inerentemente la filosofia e l’etica politica; dall’altro mi ha permesso di applicare le nozioni teoriche all’analisi fattuale degli eventi in essere. Nello specifico, l’atteggiamento che il governo, negli ultimi dieci o quindici anni, ha avuto nei confronti dello Stato, io l’ho visto allinearsi perfettamente con le esigenze del mercato, e del mercato privato.

Nelle aziende private ho assistito al progressivo disfacimento dei contratti di lavoro nazionali attraverso l’aggiunta di articoli, commi, note a piè pagina, con una velocità superiore e in una maniera più spudorata rispetto al settore pubblico. Avendo alle mie spalle anche sei anni di sindacato (ometto la sigla), ho capito che nel settore pubblico i dipendenti sono stati sempre più tutelati, ed hanno raggiunto traguardi lavorativi e previdenziali maggiori, per due semplici motivi: primo, i sindacalisti del settore pubblico appartengono spesso a livelli sociali con un medio-alto livello di scolarizzazione, in Italia, e ne consegue che i sindacalisti attinti da quelle fila risultano più preparati a conferire con le caste dirigenziali (uso apposta questa parola, caste); secondo, nel settore pubblico chi tiene i nodi della borsa è molto meno incline a resistenze, dato che, come sempre, paga “pantalone”, ovvero lo Stato. Nel privato il discorso cambia. Il capo, il plutocrate, il capitano d’industria, si guarda bene dallo scegliere un direttore generale o un direttore del personale che sia sensibile agli accordi sindacali. In più, sommariamente parlando, nel settore privato, in particolar nel terzo settore, i dipendenti, alcuni dei quali divengono poi sindacalisti, hanno una medio-bassa preparazione che non gli consente di avere sicurezza ed efficacia nel sostenere i tavoli sindacali con una controparte ben più agguerrita che nel pubblico settore. Questa è la ragione per cui in questi anni ho assistito a tante vittorie, si, ma di Pirro.

Non parlerò poi della scarsa partecipazione agli scioperi da parte delle masse interessate, né degli stessi fatti a ridosso dei sabati o delle domeniche.

Anche nel pubblico, però, ho visto cambiare le cose senza troppa resistenza, complice la tanto sfoggiata crisi economica. Molte municipalizzate (considerate nell’ambiente lavorativo come delle realtà pubbliche di serie b in cui cerchi di entrare se non riesci ad accedere ai concorsi ministeriali), si sono accorpate fra loro, in special modo tra quelle in deficit, con conseguente livellamento, in difetto, dello stato aziendale. Faccio un esempio, senza far nomi: se l’azienda municipalizzata che si occupa della nettezza urbana è in fallimento, e io l’accorpo a quella dei trasporti, che invece è in attivo, ne consegue che la prima si salva, ma la seconda si indebolisce, ottenendo due realtà di basso profilo, in tutti i sensi, però in piedi. Allo stesso modo si è fatto con l’accorpamento degli enti previdenziali nazionali.

Nel privato i datori di lavoro, accedendo ai nuovi contratti, riescono a far lavorare diciotto, trenta ore la settimana un giovane lavoratore (che risulta impiegato, per l’Istat), dandogli tre o cinque euro l’ora, ovvero quattrocento o seicento euro al mese. Però i datori hanno ancora sul groppone i “privilegiati”, che fanno sentire perennemente in colpa per percepire uno stipendio normale, di mille o poco più euro al mese. Come fare? Si cerca di fargli cambiare contratto, demansionarli, con continue pressioni e umiliazioni, finché il malcapitato cede. Nei casi in cui il lavoratore è prossimo alla pensione gli si concede uno scivolo, oppure si attende il termine biologico.

Il governo, anzi, i governi, hanno agito nei confronti dello Stato con la stessa psicologia. Da un lato, permettono contratti di lavoro con parametri e garanzie inferiori a quelli passati, dall’altro, si trovano a dover “sopportare” masse di lavoratori che ancora hanno diritti e remunerazioni “scomode”. Per questo, da una parte, si incentivano le immigrazioni di giovani pletori di disperati che, dall’estero, giungono in Italia, ammassandosi nei centri profughi, nelle stazioni, nei crocicchi delle strade, e che andranno a sostituire gli italiani loro omologhi che emigrano, e quelli più anziani che muoiono. Stiamo assistendo a un vero e proprio travaso d’acqua in due otri. Il tutto nel tentativo di conservare i privilegi delle caste dominanti, le quali accettano che Parigi ben valga una messa.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 19:19