Mario Draghi ha recentemente smosso le acque torbide della finanza affermando che “ci sono forze nell’economia globale di oggi che concorrono a mantenere bassa l’inflazione”. È la sua seconda dichiarazione di grande impatto politico ed economico. La prima fu nel luglio 2012, quando disse di voler “fare tutto quello che è necessario” per difendere l’Euro dagli attacchi speculativi internazionali. In entrambi i casi è chiaro che non si riferisce a giochi interni all’Europa, ma a forze politiche di oltreoceano.
Riteniamo che sulla questione del crollo dei prezzi delle commodity ed in particolare di quello del petrolio sia doveroso fare qualche approfondimento. Innanzitutto il prezzo del petrolio è stato più volte, per non dire sempre, oggetto sia di grandi operazioni speculative che di interventi e decisioni di interesse squisitamente geopolitico. In quest’ottica va letto l’andamento del prezzo del petrolio. Si ricordi che fino alla metà del 2004 si aggirava intorno ai 40 dollari al barile. Nel 2006 salì a 70 dollari, a luglio del 2008 raggiunse i 145 dollari. A fine 2008 precipitò a 30 dollari, per poi risalire a 110 nel 2011. Dal 2014 il prezzo è sceso fino ai circa 30 dollari al barile attuali.
In generale i prezzi riflettono una situazione di deflazione a seguito della globale recessione economica, con la generale riduzione delle produzioni e dei commerci. Ma è altrettanto vero però che un tale “ottovolante” non può rappresentare l’andamento reale della domanda e dell’offerta! Dal 2014, oltre alla speculazione, si è attivata una vasta e pericolosa strategia geopolitica, guidata dell’Arabia Saudita ed avallata dagli Usa, tesa a far precipitare il prezzo del petrolio, aumentandone la produzione, per indebolire l’Iran e la Russia. Le dinamiche dei prezzi del petrolio e delle altre materie prime sono anche collegate al “male profondo” dell’economia mondiale che si chiama “bolla del debito”. Il crollo dei prezzi si è accompagnato ad un alto indebitamento delle imprese leader nel settore delle commodity, del petrolio in particolare. Si considerino le imprese americane del settore dello “shale gas” e le varie corporation petrolifere dei Paesi emergenti, che hanno largamente attinto risorse finanziarie sia dal settore bancario che sul mercato obbligazionario. I dati parlano chiaro.
Le imprese impegnate nei settori del petrolio e del gas che nel 2006 avevano sottoscritto prestiti bancari per 600 miliardi di dollari, nel 2014 ne contavano ben 1.600 miliardi. Un aumento del 13 per cento annuo. Le stesse imprese, spesso attraverso l’utilizzo di filiali offshore, hanno fortemente aumentato anche le loro emissioni di obbligazioni, passando dai 455 miliardi nel 2006 ai 1.400 miliardi di bond nel 2014. Un aumento annuo del 15 per cento. L’emissione di obbligazioni nel periodo indicato è aumentata del 13 per cento in Russia, del 25 per cento in Brasile e del 31 per cento in Cina. È appena il caso di ricordare che in questo lasso di tempo le imprese petrolifere dei Paesi emergenti hanno contribuito con grandi dividendi ai bilanci dei rispettivi governi. Perciò la drastica caduta dei prezzi sta mandando in crisi anche i budget pubblici di molti Paesi.
L’attuale basso prezzo del petrolio sta generando una serie di conseguenze. In primo luogo, essendo i titoli azionari e obbligazionari delle imprese petrolifere collegati al prezzo del petrolio, i loro valori di mercato ne stanno inevitabilmente risentendo. Inoltre, con la diminuzione dei profitti è cresciuto il rischio dei dissesti e dei fallimenti oltre che il costo degli eventuali finanziamenti richiesti. Ad esempio, il tasso di interesse di un’obbligazione petrolifera che era di 330 punti nel giugno 2014 oggi è salita a 1.600 punti. Aumenti simili si sono registrati anche per i credit default swap, quei derivati sottoscritti per garantirsi contro le variazioni dei tassi di interesse.
Una seconda inevitabile conseguenza è la progressiva mancanza di liquidità per le imprese petrolifere coinvolte. Per farvi fronte inizialmente si aumenta la produzione con l’intento di mantenere un flusso di cassa attivo, ma spesso si è costretti ad una riduzione degli investimenti o alla dismissione di parte del patrimonio dell’azienda. Una terza conseguenza, la più rischiosa, si manifesta nella tendenza ad aumentare la vendita di “future” petroliferi e di acquisti di derivati “put option” come garanzie sull’andamento dei prezzi. Di fatto, ogni aumento dei “future” petroliferi tende a saturare ulteriormente il mercato contribuendo alla discesa del prezzo del petrolio. In una fase di caduta del prezzo, la speculazione gioca al ribasso: si vende, sulla carta, a 100 oggi per ricomprare domani a 90. Il contrario di quanto succedeva nei periodi di crescita del prezzo quando si comprava un derivato a 100 per venderlo a 110 alla scadenza, partecipando così all’esplosione dei prezzi.
È un meccanismo perverso della finanza, del debito e della speculazione. Non si possono immaginare soluzioni efficaci alle gravi distorsioni del sistema senza rivederne l’architettura. Tale urgenza, secondo noi, non è più eludibile in quanto irresponsabilmente si ripropongono vecchie tesi di geopolitica che vedono solo nella guerra o in una grande e diffusa destabilizzazione “l’occasione” per determinare l’aumento del prezzo del petrolio e delle altre commodity.
(*) Già sottosegretario all’Economia
(**) Economista
Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 19:30