Settore costruzioni,  cambiamenti necessari

Numerosi commentatori affermano che la produzione nel settore delle costruzioni (fatturati, investimenti, ma anche e soprattutto forza lavoro) oggi è andata a ritroso, che quella di dieci anni fa è anche peggiore (con riferimento all’occupazione) e che riusciremo a tornare ai livelli del 1998 forse nel 2016, o nel 2017 e oltre.

Ritengo pericolosamente fuorviante tale assunto, perché non tiene conto della netta discontinuità intervenuta nell’ultimo quinquennio: non credo si tornerà più ad un mercato con le caratteristiche di quello che abbiamo conosciuto, soprattutto a certe percentuali di ritorno sull’investimento connesso al solo “rischio d’impresa burocratico”. Questo al di là dell’auspicabile, ancorché tenue, ripresa prevista a partire già da quest’anno (certo il provvedimento attuativo del cosiddetto “split payment” non aiuta, specie nei comparti interessati agli appalti pubblici).

Lo stesso piano casa, che un quinquennio fa aveva creato ottimistiche previsioni, non ha avuto gli effetti sperati (qualche Istituto aveva parlato di 60 miliardi di investimenti attivati) e per una serie di motivi che non analizziamo in questa sede: non ultimo per il mutamento epocale intervenuto nell’economia del Paese. Occorre prenderne consapevolezza e organizzarsi di conseguenza. Prenderne atto non solo a parole, ma anche con coerenti comportamenti nelle azioni di influenza e di relazioni istituzionali. Perché la riduzione dei consumi energetici e dell’uso di risorse naturali, nonché il relativo consumo del territorio, sono nodali nel venturo panorama del settore delle costruzioni (anche per la civile convivenza).

In un contesto urbano di “maggior respiro”, il miglioramento della qualità della vita, degli spazi privati (condominiali) e pubblici, è il combinato di quanto sopra, e dovrà portare ad interventi sempre più orientati a riqualificare infrastrutture ed ambiti urbani edificati. Il mercato delle riqualificazioni incide per oltre i tre quinti nel settore delle costruzioni. Questo deve comportare un mutamento epocale nel settore edile (in senso industriale avanzato) che non si può raggiungere senza un sistema d’impresa che operi, tra le altre cose, con livelli qualitativi e di elevata specializzazione. Poi non è più rinviabile (il riferimento è alle nuove costruzioni che auspichiamo avvengano sostanzialmente nel quadro della sostituzione urbana) una reale e compiuta industrializzazione del settore. Non irrilevanti le conseguenze che ciò comporterà, sia sotto il profilo della semplificazione delle fasi lavorative in cantiere, sia sotto quello dell’innovazione di prodotto e dei processi sui materiali. Quindi componenti e tecnologie, ma anche alti profili di specializzazione delle maestranze. Questo senza parlare dei mutamenti che interverranno nei sistemi di rappresentanza, e perché la “casa” si costruirà “in fabbrica”. L’innovazione tecnologica può, peraltro, favorire un processo di crescita e di ricollocazione occupazionale. Questo vale in particolare sia per il tema dell’efficienza energetica che per adeguamento sismico: entrambi centrali.

Queste sfide implicano un serio mutamento rispetto alla configurazione attuale del mercato, caratterizzato spesso nel comparto dell’edilizia da imprese con scarsa qualificazione e con un approccio orientato al ribasso estremo dei costi. Un mutamento da raggiungere anche attraverso la normazione volontaria (specie dove è importante). Va potenziato anche il ruolo di Uni da un lato e di Accredia dall’altro. Il problema del controllo di qualità è infatti decisivo. Non si può pertanto prescindere da un efficace sistema di certificazione, e da un inossidabile sistema di controlli, che deve essere serio e diffuso. Favorire in modo incisivo un processo di concentrazione d’impresa, che in Italia presenta non pochi limiti.

Altro aspetto è relativo alla dimensione media delle imprese del settore. Perché sarebbe auspicabile la concentrazione, senza per questo enfatizzare l’opportunità di un aumento della consistenza delle singole aziende. Qui sia consentita una riflessione. Se anche solo quota parte dell’attenzione che i governi hanno posto nel tempo al problema delle grandi imprese in crisi (aprendo tavoli periodici e ricorrenti) venisse speso per le Pmi, avremmo fatto, anche culturalmente, un notevole passo in avanti, e potremmo forse guardare con un po’ più di ottimismo al futuro economico del Paese. E questo al di là delle continue attestazioni al loro ruolo fondamentale nell’economia nazionale. Perché il futuro economico del Paese è nelle Pmi.

 

(*) Direttore generale della Finco (Federazione Industrie Prodotti Impianti Servizi ed Opere Specialistiche per le Costruzioni)

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 19:18