Previsioni, scommesse

Invito un collega sismologo a tenere una lezione, nel quadro del mio corso, perché gli studenti di scienze sociali si rendano conto di quanto la previsione scientifica sia, da un lato, ardua e, dall’altro, esigente. Le previsioni sismologiche, in effetti, sono a tuttora impossibili in termini temporali, nonostante, sul piano territoriale, anche l’Italia disponga ormai di una mappa di pericolosità sismica che indica chiaramente, se non altro, le aree in cui è praticamente certo che anche in futuro si verificheranno eventi sismici di notevole intensità. Nella discussione che è seguita era inevitabile il confronto, di metodo e di sostanza, con altre discipline "immature", quali la sociologia e la stessa economia.

Quest’ultima, peraltro, a causa dell’attuale crisi mondiale ed europea, nonché italiana in particolare, sta vivendo un momento forse decisivo per la revisione di alcuni aspetti dottrinari ma, per ora, essa sembra muoversi all’interno di una solenne incertezza, proprio come le discipline sopra richiamate. Di semestre in semestre impariamo ad usare termini come subprime, poi hedge funds, poi spread e, ora, Quantitative easing: un insieme di concetti tecnici che fanno erroneamente pensare ad una disciplina seriamente capace di spiegazioni e previsioni, così come è chiamata a fare ogni scienza matura. Ma le cose, purtroppo, non stanno così. L’economia, forse addirittura più della sociologia o della scienza politica, vive da sempre una frattura fra almeno tre scuole di pensiero. Quella monetarista di Milton Friedman, quella di John Maynard Keynes e, sullo sfondo ma di grande rilievo, quella di Vienna capeggiata da Ludwig von Mises e poi, a Londra, da Friedrich von Hayek. Si badi bene che non si tratta di divergenze su aspetti di ricerca avanzati per i quali, come in ogni altra scienza, è comprensibile ed anzi opportuno che gli scienziati producano ipotesi diverse, bensì di opposte vedute sui temi fondamentali dell’economia: la moneta, gli investimenti, il prodotto interno lordo, il debito pubblico e, soprattutto, la natura e le motivazioni degli attori economici.

Sarebbe interessante chiedere a sostenitori del Quantitative easing, che non siano economisti, a quale scuola dobbiamo questa idea e a quale, invece, dobbiamo l’opposizione a questa manovra monetaria. Intendiamoci: non è una questione di erudizione personale. Si tratta, invece, di una questione di fondo che, a ben vedere, ha a che fare con concezioni dell’uomo e della società assai distanti e che, anche per questo, dànno ad ogni ricetta di politica economica un’inesorabile sapore di destra, di sinistra o un po’ di qua e un po’ di là.

Sinteticamente, possiamo dire che il monetarismo di Friedman fa da sfondo ad una concezione dell’uomo come entità libera che deve essere mantenuta tale e difesa, così come le sue azioni economiche, dall’ingerenza dello Stato nelle scelte individuali. Per Keynes, niente affatto estraneo egli stesso a ipotesi di ordine monetarista, lo Stato può e deve occuparsi di economia supplendo alle "storture" del mercato; per von Hayek l’aggiustamento automatico delle azioni individuali crea un ordine spontaneo, come il mercato, che nessuno Stato può creare a tavolino.

In questo quadro, il Quantitative easing avviato, in Europa, dalla Bce, da che parte sta? Su questo punto, per nulla inaspettatamente, le posizioni e le previsioni degli economisti sono molto diverse. C’è chi cita l’esperienza americana come esempio positivo e chi la valuta come deludente. C’è chi cita il Giappone come esempio negativo ma, alla fine, non saprebbe cosa proporre ad Abe di diverso. Ben S. Bernanke, l’ex presidente della Federal Reserve, nel 2002, durante un discorso a Chicago in onore dei novant’anni di Friedman, prendeva una posizione incerta circa la causa, indicata da Friedman, della Grande Recessione degli anni Venti: monetaria?

Forse sì, ma forse causata anche da altro. Secondo Keynes era l’iniziativa privata debole o assente ad ostacolare la ripresa economica che doveva quindi essere riavviata da interventi statali mentre per Hayek è illusorio immaginare che lo Stato possa davvero "stimolare" l’economia denunciando il ruolo devastante del debito pubblico, soprattutto se di grandi dimensioni, rispetto a quello privato. La conclusione è che nessun economista, dopo circa un secolo, è in grado di spiegare esaurientemente la prima grande crisi dell’economia capitalistica, e meno che meno di emettere una previsione sull’efficacia del Quantitative easing, cioè di una misura che potrebbe essere definita di monetarismo moderato o, se si preferisce, di keynesianesimo non dogmatico.

Una possibile spiegazione sta presumibilmente nel fatto che le scienze sociali, senza qualche integrazione interdisciplinare per la quale, del resto, nessuno ha le chiavi giuste, tendono sempre ad enfatizzare un livello di osservazione sacrificandone altri: il livello sociale, psicologico, economico in senso stretto, il politico e persino l’antropologico o, oggi, l’’informazionale’, di volta in volta assunto, o costretto, al ruolo di ‘padre’ di ogni altro livello col gravoso compito di spiegare ‘in ultima analisi’, come direbbe Marx, qualsiasi evento economico o sociale. In assenza di previsioni attendibili, come accade per scienze più mature e meno influenzate da posizioni ideologiche sulla natura dell’uomo, sulle sue attitudini e sul modo di governarle, non rimane dunque che sperare nel successo di una iniziativa, o scommessa, la quale, nonostante le prove ambigue date nel passato anche recente, sembra godere del consenso teorico di molti economisti attuali. Anche se tale consenso, più che una garanzia, è un auspicio fatto a dita incrociate.

Personalmente, mi auguro che tale successo, se raggiunto e mantenuto nel medio e lungo periodo e non solo per qualche settimana di euforia borsistica, non induca i più a ritenere il debito pubblico come una risorsa positiva visto che, alla fine, basta stampare moneta per ripristinare la felicità collettiva. Friedman ci ha messo in guardia ricordandoci che “Solo una crisi – reale o percepita – produce cambiamenti effettivi. Quando avviene una crisi, le azioni che vengono intraprese dipendono dalle idee che ci sono in giro”. Speriamo siano quelle buone.

Aggiornato il 01 aprile 2017 alle ore 18:42