I castelli di carte

Così come esiste, da sempre, un accostamento naive alla fisica é possibile immaginare una scienza economica naive? La risposta, positiva, è nei fatti poiché, specialmente durante le crisi economiche, le proposte di soluzione abbondano e chiunque si sente in grado di emettere sentenze al riguardo. Si tratta di ricette le quali, pur afferendo, perlopiù inconsapevolmente, a dottrine economiche precise e fra loro diverse, si presentano in forma ipersemplificata sviluppando ‘teoremi’ basati unicamente sul senso comune. Uno dei caratteri di fondo di simili esercitazioni è il loro profilo ‘locale’, ossia la loro tendenza a valutare questa o quella soluzione per mezzo di un legame causa-effetto immediato senza troppa preoccupazione per il dispiegarsi di sempre possibili cause e conseguenze multiple.

Un buon esempio di tutto questo è sotto i nostri occhi da quando in Europa o, meglio, nei paesi europei maggiormente colpiti dalla crisi, come l’Italia, si è diffusa l’idea di inondare di moneta i mercati, in particolare quelli obbligazionari, a cura della Banca Centrale Europea. In questo caso il ragionamento è proposto in termini assai semplici: se, attraverso una sequenza di azioni, facciamo in modo che la domanda aumenti (mettendo cioè in condizione i consumatori di aumentare i propri acquisti di beni e servizi) i produttori troveranno conveniente investire, aumentare la produzione, assumere personale e, dunque, rimettere in moto il sistema economico complessivo. Causa ed effetto, appunto. Dimenticando che, a parità di altre condizioni, è la propensione ad intraprendere a fare la differenza fra Paesi immobili e Paesi dinamici. Chi, come me, non è economista ma nutre sempre forti dubbi su soluzioni troppo semplici e troppo largamente condivise per problemi decisamente complessi, non può non essere colto da una certa dose di scetticismo.

E’ mai possibile, si chiede lo scettico, che la semplice messa in moto delle macchine stampatrici di moneta e la immissione di questa nel mercato risolva i problemi di un’economia reale in crisi? Come può tanta carta, neppure più legata a valori aurei, presentarsi come ricchezza o generare ricchezza? Sia gli Usa, sia l’Europa e il Giappone, per aiutare la circolazione monetaria e gli investimenti, negli ultimi anni hanno ridotto all’osso il tasso di sconto senza apprezzabili risultati e quindi non si capisce perché la strategia Quantitative easing (Qe) dovrebbe sortire effetti più positivi. In effetti, essa punta ad immettere risorse monetarie nel mercato come se gli attori economici l’avessero richiesta invocando tassi di sconto bassi, ossia proprio ciò che, invece, non è accaduto.

Naive per naive, è come dire alle banche e alle imprese: non avete voluto moneta nonostante il tasso di sconto fosse a zero? Bene, allora io ve la butto addosso, vi faccio nuotare in un mare di moneta cosicché capiate che, ora, non avete più alibi per evitare di investire e di farci uscire dalla crisi. Basta però leggere qua e là per sapere che un effetto storicamente sicuro del Qe è l’inflazione o addirittura l’iperinflazione. E qui arriva una ennesima e nuova ‘scoperta’ naive: l’inopportunità della deflazione e dunque, si dice, ben venga una misura, come la Qe, in grado di riavviare l’aumento dei prezzi.

In questo caso, come ha brillantemente spiegato nei suoi più recenti articoli Gerardo Coco su L’Opinione, l’ingenuità della scoperta consiste nello scambiare le cause con gli effetti poiché il rapporto fra domanda e offerta non è misterioso e la caduta dell’offerta può avvenire per cause diverse dalla sola caduta della domanda, per esempio anche il solo incremento dell’avversione al rischio.

Per cui, con il Qe, anche nel breve o medio periodo gli investimenti potrebbero comunque restare al palo e generare solo inflazione, con gaudio di chi ha debiti (Stato incluso) e amarezza per i risparmiatori. Anche sul piano tecnico, sia negli Usa sia in Giappone - perciò non solo presso i ‘cattivi’ tedeschi - sono del resto molte le obiezioni o le perplessità circa l’efficacia del Qe. Una posizione moderatamente critica è quella per esempio del professor A. Meltzer della Carnegie Mellon, quando afferma che negli Usa “i benefici del Qe sono finiti da un pezzo”; così come J. Cochrane della Chicago University sostiene che il Qe distrae l’attenzione dai due ostacoli maggiori per la crescita economica: il livello della tassazione e la barriera costituita dalle eccessive regolamentazioni; due cose ben note a noi italiani ed europei immersi in tassazioni iperboliche e in una burocrazia paralizzante. Altri ancora ritengono che il recupero economico reso possibile, almeno ipoteticamente, nel breve periodo dal Qe sia effettivo ma non significativamente maggiore di quello che si è realizzato, senza questa misura, nell’uscita da altri momenti di crisi passate.

Come si vede, il quadro interpretativo e predittivo non è affatto chiaro né unanimemente condiviso, né potrebbe essere altrimenti. Il coro di coloro che sono fermamente convinti che l’operazione che Mario Draghi sta per avviare sia salutare e conclusiva, non ha alcuna ragione per prendersela con chi sostiene tesi opposte perché nessuno può garantire che gli effetti di lungo periodo del Qe non si rivelino più gravi di quelli che potrebbero accompagnare altre strategie.

Aggiornato il 01 aprile 2017 alle ore 18:24