Tra vera finanza e finanza delle relazioni

“L’azione di vigilanza della Banca d’Italia sul Monte dei Paschi di Siena negli ultimi anni è stata continua e d’intensità crescente e si è articolata sulle principali aree rilevanti della gestione: l’adeguatezza del capitale, la prudente gestione della posizione di liquidità, i rischi finanziari e in particolare il rischio di tasso d’interesse, le dinamiche del consistente portafoglio titoli di Stato italiani in larga parte a lungo termine, la qualità del credito, la verifica dei modelli interni di misurazione dei rischi di credito e operativi, l’adeguatezza del management e del sistema dei controlli interni”. Così esordiva la Banca d’Italia il 28 gennaio del 2013.

Una vera e propria bufera ha poi travolto il Monte dei Paschi di Siena. Una vera e propria bufera sta ora travolgendo Banca Carige (storica banca ligure sulla quale l’organo di vigilanza aveva già fatto controlli interni a più riprese), Ubi Leasing e la controllante Ubi Banca. Tutto sembra esplodere sotto l’azione della magistratura, che pare aver sostituito la banca centrale nei controlli e nell’adozione di provvedimenti di rigore. Sarà una coincidenza, ma nei giorni scorsi la Guardia di finanza, su ordine della magistratura, ha rivoltato come un guanto anche la sede del gruppo assicurativo-finanziario Unipol-Sai a Bologna, quel “nuovo” gruppo nato dalla “controversa” fusione tra la Unipol e la Fonsai del noto finanziere siculo Paolo Ligresti, contro il quale la magistratura, ancora la magistratura e non l’organo di controllo preposto alla vigilanza ispettiva, ha spiccato provvedimenti restrittivi che hanno coinvolto anche i figli.

Un brutto momento per i banchieri, gli assicuratori-banchieri di via Stalingrado e gli “squali della finanza” come li definiva, sui generis, il pur riservato Vincenzo Maranghi. C’è da osservare, però, che per dimensione e per protagonisti, questi accadimenti stanno divenendo “la norma”, che vede la banca centrale, meglio il suo potere di vigilanza, abdicare o forse anche, secondo alcuni, “piegarsi” al nuovo corso politico uscito vincitore dalle ultime elezioni europee. Come spiegarsi, altrimenti, l’attacco ai “mostri sacri” bresciani, oppure anche a quello delle Coop rosse, che per i bene informati di via Stalingrado risponde al messaggio di “rottamazione” che i renziani lanciano al vecchio establishment vetero comunista. Ma la Banca d’Italia si sta costruendo un ruolo quasi “parallelo”.

Bankitalia, già considerata una sorta di “moglie di Cesare”, cerca di decidere o “far decidere” i destini di altri istituti di credito, vedi la Banca Popolare di Marostica, la Veneto Banca, la Banca Etruria e la Cassa di Risparmio di Ferrara (Carife). Tutte promesse spose, quasi a mutuare la cultura islamica, alla Banca Popolare di Vicenza; e tutte “consorelle”, se escludiamo la Carife, in quanto appartenenti alla categoria delle banche popolari mutualistiche di luzzattiana matrice. Una singolare promessa matrimoniale, quella fatta dalla Banca d’Italia alla Popolare di Vicenza. Una promessa che ha una sua giustificazione, in termini di relazioni. E quando si parla di relazioni si parla di “potere”. Questa “poliginia sororale” metterebbe il presidente della Banca Popolare di Vicenza in condizione di disporre di autentiche “forze lavorative” derivanti dai singoli matrimoni tali da consentirgli un accumulo di ricchezze prima inimmaginabili, consentitele non tanto in virtù di conti economici claudicanti (un risultato economico negativo di 23 milioni iscritto a bilancio 2012), bensì di consolidate relazioni che gli hanno consentito un uso strategico di fitte reti di potere, molto più vaste di quelle coltivate dai vertici delle banche acquisende, ma che queste andrebbero ad accrescere.

Ma chi ha facilitato questo percorso, solitamente ad “ostacoli”, con i vertici di via Nazionale? Il professor Monorchio, Andrea Monorchio. In un servizio mandato in onda alcuni giorni fa su Rete 4, durante la trasmissione “La Gabbia”, l’ex ragioniere generale dello Stato, viene contattato telefonicamente per rispondere ad alcune domande dell’intervistatore, che tenta di conoscere come mai da pensionato superpagato con 10mila euro netti al mese, ha ancora una ventina di incarichi e una remunerazione complessiva annua superiore al milione e duecentomila euro. Il settantenne grand commis di Stato non risponde; il “nuovo Mastrapasqua”, come l’ha definito Gianluigi Paragone, dichiara disinteresse: “La cosa non mi tocca minimamente”. Ma se le laute remunerazioni non interessano il percettore, va rilevato come gli incarichi ricoperti avvengono “per chiamata”. Infatti, alla domanda di spiegare il suo ruolo in Banca Popolare di Vicenza, dov’è vicepresidente, ed i suoi rapporti con la Banca d’Italia, il professor Monorchio risponde con un chiaro quanto vanitoso “io vengo chiamato”, confermando le voci che danno l’ex ragioniere dello Stato quale “uomo della Banca d’Italia” all’interno della Banca Popolare di Vicenza, quindi a suggellare il tandem strategico-operativo tra il professore ed il viticultore vicentino Gianni Zonin.

Rimane la curiosità di sapere se chiamato dal presidente della banca vicentina per interloquire autorevolmente e direttamente con l’istituto centrale o “inviato” da Banca d’Italia. Anche qui i bene informati, introdotti in alcune banche d’affari chiamate a valutare i dossier acquisitivi, non hanno difficoltà ad affermare che questa autorevole “cinghia di trasmissione” ha svolto un ruolo nelle recenti vicende che hanno visto la Banca d’Italia sollecitare la fusione con la vicina Veneto Banca ed a strutturare le condizioni con la ferma previsione dell’estromissione del management di Montebelluna nella sua interezza.

C’è stato un tempo in cui il presidente Zonin, da abilissimo tessitore di relazioni, invitò Cesare Geronzi e consorte a Vicenza. Il “ragioniere” lo ricorda ancora: “Fu in occasione del Vinitaly del 1997; Zonin accolse me e mia moglie con la consueta gentilezza ed il piglio anglosassone che amava proporre”. Il fine era chiaro: entrare nel “salotto buono della nobiltà romana”, un sogno per Gianni Zonin. Un sogno che condivideva con il marchese Giuseppe Roi, il mecenate vicentino nipote di Antonio Fogazzaro, già presidente europeo delle ville storiche, uomo di grande cultura e charme, possidente molto ben introdotto nella Curia romana e che si faceva vanto dell’amicale frequentazione del Cardinale Eduardo Martinez Somalo della Fondazione Centesimus Annus Pro Pontifice.

Lo stesso presidente Zonin è ricordato da alcuni Officiali della Segreteria di Stato quale accompagnatore dell’intero consiglio d’amministrazione della banca in visita al Soglio Pontificio. Fu un successo, anche per le casse della Centesimus Annus. Zonin, all’epoca, giocava con Geronzi al “gatto con il topo”, avendo ben chiaro l’obiettivo d’influenzare la politica dell’allora Banca di Roma attraverso un 7,5% strategico che desiderava far acquistare alla Banca Popolare di Vicenza. Le lotti intestine nella città palladiana non gli consentirono di raggiungere un accordo, ma non abbandonò mai il desiderio di coronare il sogno di entrane nel “salotto buono”. Quando si è presentata l’occasione, non se l’è fatta sfuggire di mano. Monorchio “doveva essere chiamato”, costi quel che costi. Monorchio doveva essere la “garanzia” per le ricercate, ottime relazioni romane. Rigorosamente bipartisan.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 19:26