Il vino tricolore a stelle e strisce

Protagonisti di un paio di interviste in passato sono stati anche alcuni personaggi nati negli Stati Uniti, italoamericani, che hanno mostrato quanta dedizione, competenza e passione mettono nel rappresentare gli americani di origine italiana. Ma questa rappresentanza, questa attività di volano dei rapporti tra i due Paesi, non è interpretata esclusivamente da italoamericani nati negli Stati Uniti. Uno dei più importanti italiani d’America, nato in Italia – in Sicilia, per essere più precisi – e poi arrivato negli Stati Uniti prima in rappresentanza del nostro Paese e poi per conto proprio, con una carriera di grandissimo successo, è Lucio Caputo, storica presenza italiana a New York. Lo incontriamo alla vigilia di due importanti eventi da lui organizzati in qualità di presidente di due importanti associazioni, pilastri della comunità italiana negli Usa.

Presidente Caputo, lei è da più di trent’anni alla guida dell’Italian Wine & Food Institute, del quale è anche il fondatore. Ma il suo successo circa la promozione del vino italiano nasce prima. Ci parla di questa che ormai è una storica istituzione italiana negli Stati Uniti?

Ho fondato l’Italian Wine & Food Institute quando ho lasciato l’Ice, nel 1983. Durante il mio mandato all’Istituto per il Commercio estero nella sede di New York lanciai una grande campagna promozionale a favore dei vini italiani: un evento mai realizzato prima, che iniziò nel 1974 e finì nel 1982. Prima dell’inizio della campagna si esportavano negli Stati Uniti 362mila ettolitri di vino all’anno, nel 1983 l’export annuale arrivò a 2.400.000 ettolitri, con un aumento del 563%: tutti i dati sono su una tabella pubblicata sul nostro sito (www.italianwineandfoodinstitute.com). I migliori vini italiani ebbero profitto da questa campagna, che ci permise di superare i vini francesi, prima in quantità e poi anche in valore. La cosa positiva di questa campagna, che fu effettivamente portata avanti così come l’avevo immaginata, fu che tutti gli uffici Ice lavorarono insieme per la sua riuscita, con una strategia coordinata e mirata al business dell’esportazione del prodotto, anche in termini di rapporti con la stampa e di pubbliche relazioni: cosa che in precedenza non si era verificata. Girai gli Stati Uniti in lungo e in largo con diversi media tour. Aprimmo l’enoteca al quinto piano della sede dell’Ice, che allora era a Park Avenue, dove c’era una continua possibilità di degustazione dei diversi vini italiani e di ammirare l’arte e la cultura italiana. Nel 1982 dall’Italia si decise di terminare la campagna: ci fu un famoso personaggio politico dell’epoca che mi accusò di aver trasformato l’Ice in una bettola. Il mio mandato terminò, l’enoteca fu smantellata spendendo più di quanto era servito per realizzarla, e dopo la fine della campagna dal 1983 al 1991 l’export di vino italiano negli Stati Uniti crollò del 71%, passando dai 2.400.000 ettolitri del 1983 ai 701mila del 1991. Solo nel 2011 il numero di ettolitri di vino esportati negli Usa ha superato il record del 1983. Uscito dall’Ice, mi misi in proprio e decisi di dare vita all’Italian Wine & Food Institute: una no-profit che promuove vino e cibo italiano di qualità, con le sole forze dei nostri sostenitori.

Il vostro evento annuale di New York, il Gala Italia, quest’anno si tiene il 20 febbraio.

Nel 1984 iniziai a fare anche il Gala Italia, che è durato – nella formula originale – fino al 1994: dovemmo interromperlo per motivi di budget ma anche perché in qualche modo avevamo raggiunto un livello di eccellenza tale per cui sarebbe stato impossibile superarsi; nell’ultima edizione del 1994 c’era, oltre al cibo e il vino, anche la lirica, la moda e l’arte. Dopo il 1994 abbiamo deciso di puntare più sull’aspetto commerciale, ampliando il numero delle aziende – mantenendo sempre l’alta qualità, semplificando i contenuti e riducendo i costi. Ospitiamo di base le eccellenze italiane nel settore del cibo e del vino, ma ci concediamo saltuariamente anche qualche divagazione a vantaggio delle eccellenze italiane di altro tipo, di contorno rispetto all’alimentare e al vinicolo che rimangono il nostro core business. Il 20 febbraio ci sono in realtà due eventi. Il Gala dell’Italian Wine & Food Institute si tiene durante il giorno: lo facciamo nel posto forse più elegante ma anche più caro di New York, al The Pierre Hotel, perché il nostro obiettivo è promuovere la qualità e l’immagine del vino migliore del mondo, quello italiano, e quindi manteniamo un profilo altrettanto alto. Inoltre, la sera, c’è un secondo evento, organizzato da un’altra associazione della quale sono presidente ormai da 48 anni: la Asilm (American Society of the Italian Legions of Merit), l’associazione che riunisce le personalità insignite dalla Repubblica Italiana. Ne fanno parte grandissime personalità, come Antonin Scalia, che abbiamo premiato lo scorso anno, Rudy Giuliani, Nancy Pelosi e molti altri personaggi di grande successo, circa 700 sparsi su tutti gli Stati Uniti. Questa associazione organizza anch’essa un Gala, appunto quello della cena di altissimo livello - con cibo, vini, cucina e chef rigorosamente italiani - della serata del 20 febbraio: nel corso della serata premieremo anche Giovanni Rana, che ha compiuto un grande sforzo per promuovere i suoi prodotti negli Stati Uniti, e l’eccellenza italiana anche nel campo della ricerca. Daremo anche un riconoscimento alla musica italiana e al suo grande contributo alla musica jazz: avremo con noi un giovane bravissimo artista italiano, Francesco Cafiso. Oltre al Gala la Asilm produce una pubblicazione mensile, e soprattutto porta i propri soci ogni anno in una regione italiana diversa con un viaggio di grande spessore culturale e una rappresentanza di personalità davvero di prestigio: siamo stati a Roma, dove siamo stati ricevuti in Quirinale, nel 2013 in Sicilia, e nel 2014 saremo in Piemonte.

Lo chiediamo a lei che ha il quadro della situazione da tanto tempo: come si è evoluta la storia del vino italiano negli Usa?

Gli americani hanno scoperto il vino tra la seconda metà degli anni Settanta e gli anni Ottanta: prima era un prodotto per pochissimi. Ci fu un vero e proprio boom di interesse, nacquero riviste e trasmissioni specializzate in tv e radio, il vino iniziò ad andare di moda. Non era solo il prodotto ad essere ricercato: organizzare un wine-tasting diventava sinonimo di cultura, la conoscenza dei diversi tipi di vino era ricercatissima, la narrazione sulle diverse uve e la tradizione della produzione enologica affascinava sempre più persone. All’inizio arrivarono dall’Italia vini più commerciali e leggeri: il Lambrusco vendette più di 10 milioni di casse in un anno ed ebbe il grande merito di fare “da ponte” tra le bevande gassate alle bevande alcoliche. Piano piano il palato degli americani si abituò a vini di maggiore qualità, che inizialmente non sarebbero riusciti a gradire, e il vino italiano esplose. Ancora oggi la percentuale della popolazione americana che beve vino è solamente circa il 40%: ma coloro che sono appassionati ne bevono parecchio e se ne intendono molto.

A proposito di anniversari decennali, quest’anno ricorre anche il quarantesimo della nascita del Gei - Gruppo Esponenti Italiani, che lei ha fondato e presiede. Che cos’è e come funziona?

Decidemmo di dare vita al Gei nel 1974, perché a quel tempo in America si parlava dell’Italia solo in termini negativi. La promozione avveniva in maniera confusa ed era quasi impossibile trovare situazioni in cui venisse messa in risalto l’immagine dell’Italia, raccontandone le cose positive. Creammo quindi questo forum di incontro tra personalità italiane e personalità americane e nacque poi l’idea di costituire un premio, il Gei Award, che nel corso del tempo è stato attribuito a molte personalità di grandissimo spessore sia americane che italiane, tra cui ben tre Presidenti della Repubblica Italiana. Nel corso degli anni il Gei si è un po’ trasformato, anche perché questo bisogno di “tamponare” l’immagine dell’Italia per fortuna è andato riducendosi: gli americani oggi ci conoscono e ci apprezzano. Oggi il Gei è un club molto esclusivo, nel quale si incontrano gli italiani che contano e che ospita importanti personalità italiane quando vengono in visita in America: l’ultimo nostro ospite è stato il Presidente del Senato, Pietro Grasso. I requisiti per entrare nel Gei sono molto severi: si deve parlare l’italiano, si deve essere rappresentanti negli Stati Uniti di una grande azienda italiana o avere meriti personali di grande rilievo. La richiesta viene presa in considerazione e per essere approvata richiede l’unanimità di tutti i componenti del board: qualora essa si ottenga, sono poi tutti i membri del Gei a doversi pronunciare, e basta che anche uno solo di essi sia contrario a far sì che la richiesta venga respinta. Inoltre, i soci possono intervenire alle iniziative che preferiscono, ma non possono mai mandare qualcuno in loro sostituzione.

Lei è arrivato negli Stati Uniti nel 1967, il più giovane funzionario chiamato a dirigere un ufficio commerciale italiano all’estero. Com’è cambiato il rapporto tra gli italiani in arrivo in America per lavorare - un flusso che non si è mai fermato - e questo grande Paese?

Sono cambiate davvero tante cose. Consideri che quando io fui mandato negli Stati Uniti per conto dell’Ice, non si può dire che fosse una punizione, ma nemmeno una grande promozione. Io arrivai prima a Philadelphia, e poi aprii l’ufficio a New York. In quegli anni, l’America era lontana dall’Italia. I pochi operatori italiani che venivano, spesso mi chiedevano consigli su dove mangiare italiano o trovare un caffè… e certamente suscitavano curiosità agli americani. Allo stesso tempo, gli italoamericani non esprimevano grande simpatia per gli italiani che arrivavano in rappresentanza delle aziende italiane a New York: li chiamavano i “baroni di Manhattan”, perché la percezione di entrambi i gruppi all’epoca era che non avessero molto in comune gli uni con gli altri. Io cercai da subito di fare un’opera di mediazione, perché sapevo quanto fossero da apprezzare gli italoamericani, che avevano fatto delle cose eccezionali: cercando però di spiegare anche che all’epoca, un italiano che veniva per tre anni per dirigere una filiale a New York, aveva interessi differenti rispetto a chi l’Italia l’aveva lasciata tempo prima o la conosceva solo dai racconti dei suoi genitori o addirittura dei nonni. I manager che arrivavano dall’Italia erano legati a precisi risultati di business e pertanto la loro vita si sviluppava secondo dinamiche, luoghi e attenzioni che nascevano da un approccio all’Italia completamente diverso, rispetto all’italoamericano che era cresciuto nell’amore per l’Italia ma con passioni e stili di vita differenti, perché naturalmente influenzati dalla cultura americana. Non si trattava di snobismo, ma semplicemente di ruoli diversi e di un differente rapporto con l’Italia. Questo concetto piano piano prese piede, fu compreso, e quindi i rapporti tra questi due mondi si semplificarono e trovarono terreni comuni su cui riconoscersi e apprezzarsi. Nel frattempo gli italoamericani hanno acquisito ancora più successo e ricchezza, mentre i manager italiani possono rimanere più a lungo e integrarsi meglio. Anche gli americani non di origine italiana, del resto, oggi capiscono e apprezzano molto di più l’Italia.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 19:21