L’exploit dell’export e le metastasi interne

L’Isril, il centro studi sindacale cattolico, ha dichiarato, in forte controtendenza, che bisogna fare “carta straccia delle profezie negative” e rendersi conto che “siamo uno dei più grandi esportatori al mondo soprattutto grazie ai nostri distretti”. Il messaggio era contenuto in un appello firmato da molti docenti e dirigenti di fondazioni e organizzazioni di categoria industriali, artigiani e agricoli. Tra i firmatari non c’erano rappresentanti sindacali.

L’appello “L’Italia deve fare l’Italia” ricorda alcune semplici verità. Per esempio che l’Italia, nel mare aperto della globalizzazione, non se l’è cavata affatto male. Anzi, si è specializzata, modificata, modernizzata ed è arrivata terza in Europa nel 2012 per saldo commerciale manufatturiero (nel 1999 era quinta). Che, per esempio, il fatturato estero dell’industria italiana tra fine 2008 e 2012 è cresciuto più di quello tedesco e francese (Eurostat); che il saldo dell’interscambio estero manufatturiero ha superato i 100 miliardi di dollari, cosa riuscita solo a Cina, Germania, Giappone e Corea del Sud; che l’Italia è prima, seconda o terza al mondo per attivo commerciale sul 19% dell’insieme dei 5.117 prodotti del commercio mondiale. Sommessamente, viene così ribadita una verità sottaciuta, negletta, combattuta.

L’Italia è un Paese competitivo e a nulla vale il richiamo di tutte le migliaia di classifiche di agenzie, organizzazioni, fondazioni, associazioni internazionali, che ci vogliono sempre in fondo al pozzo. L’Italia è competitiva e non lo sa perché non ci sono film a raccontarlo, libri a descriverlo, saggistica a spiegarlo, giornali a illustrarlo. L’Italia è un Paese competitivo, principalmente nel suo sistema privato, anzi specificatamente in 32mila piccole e medie imprese, che sono leader nel tessile-abbigliamento, nelle calzature, nei mobili, nella nautica, nei mezzi di trasporto (che non siano auto), nei prodotti innovativi, nella chimica- farmaceutica, nell’edilizia e nella meccanica (il settore più importante per surplus commerciale). Lo sono ad onta dell’odio culturale per la chimica, le barche, il lusso, l’edilizia, la produzione industriale. Lo sono in barba alla ricerca che non c’è, alla distribuzione commerciale internazionale frammentata, all’assenza di un marketing strutturale. Anche ora, in una crisi spaventosa, l’Italia privata è forte, innovativa, capace, moderna.

Cosa c’è che non va allora? Facile indicarlo: il mercato interno, le sue tasse, la sua organizzazione, le sue leggi, la sua giustizia, la sua burocrazia, la sua politica. L’Italia vince in un mondo globalizzato dove tutto le è contro, dalla competizione estrema al peso politico. Perde in casa, però. In casa perde sempre con la sua tifoseria che la fischia sempre, soprattutto quando vince. Sotto sotto, in realtà anche l’appello succitato non è esente da peccati. Parlare delle Italie innovatrici e arretrate significa tirare in ballo il classico dualismo Nord-Sud e quello nuovo, aggiuntosi in questi anni, tra imprese moderne dell’export e imprese del mercato interno. Quali dei due fa più l’“italiano”? Per tanti esperti intellettuali e dei media non c’è dubbio. Difendono sempre Sud ed economia più arretrata, negando che debbano cercare di evolversi.

In secondo luogo, la cronologia tirata in ballo dall’appello rivaluta gli ultimi anni di Governo berlusconiano. Fa proprie le litanie di Tremonti che noiosamente snocciolava a francesi e tedeschi i dati sui primati italiani di produzione e risparmio. I molti docenti, dirigenti di fondazioni e organizzazioni datoriali di categoria industriali, artigiani e agricoli, oggi firmatari dell’appello, all’epoca, tra 2011 e 2012, non sembravano dello stesso avviso. Sotto l’aggressione finanziaria alleata (Usa-franco- tedesca) non rimarcavano l’exploit dell’export, non sottolineavano la forza italiana; dicevano: “fate presto” ad arrendervi. Il che porta all’ultima considerazione che evidenzia il misunderstanding dell’appello. Le università, categorie datoriali e fondazioni, dirette dai firmatari dell’appello, fanno parte dell’Italia innovatrice o arretrata? Sicuramente le 32mila imprese regine dell’export (di cui solo 5mila hanno crediti dalle banche) non hanno molto a vedere con università, categorie datoriali e fondazioni. E nemmeno con i distretti, da tempo poco sostenuti. Le 32mila imprese (su 3 milioni) resistono anche con le stesse regole delle altre, per quanto attiene a sindacati, regole del lavoro e burocrazia, perché hanno clienti che pagano e magari investitori esteri.

L’Italia delle tante sovrastrutture burocratiche che parla del lavoro altrui trova sempre i mezzi per sopravvivere e anche bene. In conclusione l’appello è giusto, ma pronunciato da chi rema contro. Si tratta di una caratteristica che torna negli studi presentati da Isril. Si prenda il professor Fadda, frequente teorizzatore del centro sindacale. Ultimamente ha elencato alcuni punti per rimettere l’Italia a posto. Regole internazionali che regolamentino la finanza, che portino alla governance democratica europea e globale, che facciano della tecnologia non un fattore di maggiore competitività, ma di riduzione degli orari di lavoro e che puntino alla crescita occupazionale come obiettivo ultimo. Regole interne per usare il debito pubblico per la crescita, per la flessibilità del lavoro che non abbassi i salari ma sostenga reddito e formazione, per crescere senza ridurre salari, consumi, risparmi, al di là dell’incremento della competitività per misurare l’economia non per Pil ma per redistribuzione del reddito e per imporre nell’economia merito ed etica.

Il tono accademico e conciliatorio nasconde un mix di processi mentali contradditori di estrema destra e di estrema sinistra, di filo ed anticapitalismo in un bel zibaldone di principi egualitari, liberali, economici e non. Il prof. dell’Università “La Sapienza” giustamente si pone il problema delle crescenti disuguaglianze, ma per risolverle immagina cambiamenti internazionali epocali quanto improbabili. Senza darlo a parere, condanna l’Europa quale è oggi. Poiché difficilmente la Ue cambierà a breve, se ne deduce che è più un danno che altro. Fadda chiede, e giustamente, che la migliore produttività dovuta alla tecnologia non faccia perdere posti di lavoro, ma riduca il tempo di lavoro. Purtroppo chi guida l’innovazione tecnologica è motivato da altri fattori più egoistici e comunque non risiede in Europa. A salario invariato, minor lavoro significa prezzi più alti. Non viene chiarito come comporre il contrasto tra produzione da un lato, e risparmi e consumi dall’altro. Il “lavorare meno, lavorare tutti” evidenzia che in tempi di innovazione spinta, a maggiore tecnologia corrisponde meno lavoro necessario. Allora, se “giustamente il costo del lavoro è un costo variabile per le imprese”, non è invece come scrive Fadda “un costo fisso per la società”. Questo costo fisso si identifica in un reddito decente, molto più sostenibile di un lavoro decente inutile. Conseguentemente, l’occupazione non è l’obiettivo raggiungibile.

I tanti desideri, giusti e condivisibili, contraddittori, presentati da Fadda potrebbero divenire realtà solo in un contesto politico dirigistico, un po’ cinese, un po’ americano, con l’accantonamento sia di molti eccessi che di elementi qualificanti della democrazia. Improbabile che una simile soluzione all’Isril piaccia. Sotto la superficie democratica, l’Italia ha molti dirigismi di nicchia, ognuno armato contro l’altro ed è il loro peso che frena la società italiana. Come il Risorgimento volle dire la vittoria di uno staterello su tutti gli altri, la rinascita del mercato interno forse potrebbe nascere dalla vittoria di un dirigismo sugli altri. Il contrario dello zibaldone di mille obiettivi e di mille ideali messi insieme alla rinfusa.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 19:26