Poste, privatizzazione ma solo sulla carta

Cosa c’è in una parola? Prendiamo la parola “privatizzazione”. Non occorrono delicate interpretazioni etimologiche per decifrarne il senso: si privatizza quando si prende qualcosa che è nel dominio pubblico – un’impresa, poniamo, o dei beni immobili – e lo si trasferisce alla disponibilità dei privati; lo si restituisce al mercato, potremmo dire, facendo un passo avanti e prendendo coscienza della dimensione stipulativa e ideologica che pertiene a qualsiasi definizione.

Ora, tanto che accediamo alla definizione più asettica, quanto che privilegiamo quella più filosoficamente marcata, è chiaro che l’operazione imbastita dal Governo attorno a Poste Italiane ha ben poco in comune con un’idea anche rudimentale di privatizzazione. La cessione del 40% del capitale sociale non scalfisce il controllo dell’azienda, che rimane saldo in mani pubbliche e sarà puntellato, per maggior garanzia, dal ruolo che i sindacati eserciteranno in virtù delle quote riservate ai dipendenti – se sarà un ruolo diretto o indiretto rimane da vedere, ma la Cisl ha fatto sapere che confida in “una quota indivisa che resti nella proprietà dei lavoratori”. A un limitato disimpegno finanziario, insomma, non corrisponderà alcun disimpegno industriale.

Lo Stato italiano continuerà a presidiare i servizi postali e le altre attività in cui Poste Italiane articola la propria presenza, incluse quelle mansioni – per così dire – di servizio (si pensi al coinvolgimento in Alitalia) che difficilmente potrebbero conciliarsi con la missione di un operatore privato. Come ha candidamente affermato su Twitter Roberto Sambuco, capo-dipartimento Comunicazioni del Mise, il “servizio universale è welfare puro. E [anche] 150mila dipendenti [lo sono]”. Interrogarsi sulla natura dell’operazione non è uno sterile esercizio di nominalismo.

Chi parla di “privatizzazione di Poste” fa certamente un pessimo servizio all’opinione pubblica; ma chi avalla questa dismissione fasulla rende un servizio ancor peggiore al Paese. Nel commentare le prime dichiarazioni del premier Letta e del ministro Saccomanni, scrivevamo che al fumo sarebbe dovuto seguire lo spezzatino (cioè la separazione del business postale dalle altre attività): oggi ci accorgiamo, purtroppo, che non c’era neppure l’arrosto.

(*) Editoriale a cura dell’Istituto Bruno Leoni

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 19:29