Usa/Italia, l’intervista a Carlo Calenda

Carlo Calenda è viceministro per lo Sviluppo Economico ed è alla sua prima esperienza in politica. Questa rubrica non ha mai intervistato personalità politiche italiane, ma chi scrive lo percepisce come qualcuno che è completamente differente dalla media del personale politico italiano. È persona giovane e competente; con un passato che gli ha visto ricoprire un ruolo di responsabilità, nell’azienda più di successo tra le tante di successo in questo Paese, la Ferrari, prima di essere chiamato ad una responsabilità politica, e non grazie a ciò; si muove a suo agio nel mondo dell’impresa e della sua internazionalizzazione, fondamentale per il nostro Paese. Noi, che vediamo nell’ottimismo americano dedito alla ricerca delle felicità una lezione da importare anche in Italia, non ci lasciamo scappare l’opportunità di intervistare qualcuno giovane e in gamba nelle istituzioni italiane, perché rifuggiamo dalla tentazione di portare avanti la solita lamentela populista. Gli esempi positivi ci sono, e a loro chiediamo di parlare di Italia e Stati Uniti: il fatto di poterne trovare uno come viceministro di un ministero italiano fondamentale come quello dello Sviluppo Economico è una fantastica notizia.

Lei viene dal mondo dell’impresa: è stato direttore dell’Area Strategica Affari Internazionali in Confindustria. Come si differenzia la rappresentanza istituzionale delle imprese americane rispetto a quella italiana? Non è che anche in questo abbiamo qualcosina da imparare dall’America?

La prima considerazione da cui occorre partire è che il confronto tra due economie di mercato e tessuti produttivi così profondamente diversi appare complesso e forse fuorviante. Il nostro modello di associazione industriale si fonda sulla necessità di aggregare interessi di un sistema imprenditoriale fatto soprattutto di piccole e piccolissime imprese, mentre le grandi imprese americane hanno in esse stesse la forza della negoziazione. Tuttavia c’è alla base del sistema americano un profondo rispetto della volontà e della voce del mondo produttivo. Ritengo sia questa una lezione da imparare e da fare nostra. Non ci si può continuare a trincerare dietro lo stereotipo secondo cui la diversità culturale e le peculiarità del nostro sistema non consentono di applicare certi comportamenti. Occorre dare maggiore ruolo alle nostre rappresentanze delle imprese nel processo di definizione delle politiche industriali. Nel nostro Paese le politiche per le imprese sono ancora troppo lontane dalle necessità degli imprenditori, essendo stata la politica stessa per troppo tempo “scollata” dalla realtà. Immagino un processo in cui sia l’impresa ad analizzare le necessità del settore produttivo in cui opera per poter rappresentare al Governo le necessità di contesto utili allo sviluppo e direzionare in tal senso le azioni e gli interventi, secondo un processo “bottom-up”. È in questa direzione che mi sto muovendo per le materie di mia diretta competenza.

L’Europa è impegnata in un difficile e importantissimo negoziato con gli Stati Uniti, il Transatlantic Trade and Investment Partnership (TTIP). Che cos’è, come sta andando, e perché è fondamentale per l’Italia?

Il TTIP è un accordo commerciale tra due mercati, gli Usa e l’Ue, che insieme contano circa 800 milioni di consumatori e costituiscono quasi la metà del Pil mondiale. Già questi dati possono aiutare a comprendere la portata dell’accordo. Per l’Italia, in particolare, un recente studio d’impatto dell’accordo stima un incremento dell’8% per le nostre esportazioni. In alcuni settori l’impatto positivo sarebbe maggiore, evidentemente in ragione degli attuali ostacoli al commercio e della capacità delle imprese italiane di avvantaggiarsi della rimozione delle barriere. L’export del sistema moda crescerebbe del 18%, quello meccanico intorno al 10%. Secondo lo studio d’impatto una conclusione ambiziosa dell’accordo, con un abbattimento tariffario e un consistente smantellamento delle barriere non tariffarie, potrebbe produrre in Italia benefici maggiori che in altri Paesi europei. Questo soprattutto perché l’Italia sconta barriere non tariffarie che penalizzano le nostre produzioni più di quelle di altri partner europei, con conseguente gap di competitività sul mercato Usa. Settori prioritari del nostro export, inoltre, soffrono di dazi – benché mediamente contenuti - relativamente più alti. Per il nostro comparto del food, inoltre, è fondamentale il tema delle indicazioni geografiche, a tutela di molte nostre produzioni sul mercato americano, e su questo in particolare ci sarà bisogno di un grande impegno negoziale da parte nostra.

Il Governo ha recentemente presentato il piano Destinazione Italia, per cercare di risollevare la drammatica quota di investimenti stranieri che al nostro Paese darebbero molto aiuto. Ce ne può riassumere brevemente i contenuti? Magari qualche italoamericano che ci legge si appassiona e approfondisce…

Si tratta di 50 proposte di intervento formulate dal Governo: non solo capitali, ma anche competenze e professionisti. Le misure agiscono sui diversi ostacoli che rendono difficoltoso investire il proprio talento o il proprio denaro in Italia: formazione, giustizia civile e amministrativa, fisco, costo dell’energia, e altro. Alcune di queste proposte hanno trovato una formulazione normativa nel decreto Destinazione Italia, approvato lo scorso dicembre. In esso sono contenute misure di facilitazione agli investimenti esteri e agli scambi commerciali, tra cui un sistema fiscale certo e prevedibile per le multinazionali, incentivi alle spese in ricerca e sviluppo e l’estensione dell’orario di apertura degli uffici dell’Agenzia delle Dogane per favorire la circolazione delle merci in entrata e in uscita dall’Italia, per citarne alcune. Per l’internazionalizzazione è stato previsto poi uno stanziamento aggiuntivo di 22,6 milioni di euro grazie al recupero di fondi pubblici inutilizzati. Con esso ci proponiamo incrementare in qualità e quantità gli sforzi di promozione del Made in Italy nel mondo, toccando più mercati di destinazione e ampliando il numero di settori produttivi coinvolti. Un passo importante per dare sostegno all’internazionalizzazione delle imprese.

I primi ambasciatori dell’export italiano negli Usa sono gli italoamericani, il cui cuore batte forte per l’Italia, a volte più di quanto non faccia quello di chi in Italia (ancora) vive. Noi abbiamo da sempre la sensazione che l’Italia si sia dimenticata di loro, delle loro storie di successo, dell’esempio vincente che costituiscono quando si unisce la creatività e l’attitudine a lavorare duro di noi Italiani con l’ambiente dinamico e libero degli Stati Uniti...

Dagli italiani in America ci arriva una lezione di creatività e di dinamismo senza eguali. È la dimostrazione di quali energie potremmo dispiegare in Italia, se sapessimo assecondare meglio attitudini personali e spinte imprenditoriali.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 19:19