Una difesa liberista dell'euro/4

Continuiamo la pubblicazione in quattro puntate della relazione che il professor Jesus Huerta De Soto presenterà il prossimo 3 settembre a Praga in occasione della Riunione Generale della Mont Pèlerin Society.

Jesus Huerta de Soto Un secondo esempio della malsana influenza anglosassone può essere trovata nel piano europeo di ripresa economica che la Commissione Europea ha lanciato nel 2008. sotto gli auspici del Washington Summit, con la leadership dei politici keynesiani come Barack Obama e Gordon Brown e su consiglio dei teorici economici nemici dell’euro, come Krugman e altri. Il piano raccomanda ai paesi membri l’espansione della spesa pubblica dell’1,5 per cento del Pil (circa 200 miliardi di euro). Anche se alcuni paesi, come la Spagna, hanno fatto l’errore di espandere i loro bilanci, il piano, grazie a Dio e all’euro, e per la disperazione dei keynesiani e dei loro seguaci, ben presto non è approdato a nulla, una volta che è diventato chiaro che sarebbe solo servito ad aumentare i deficit, precludendo il conseguimento degli obiettivi del trattato di Maastricht e avrebbe gravemente destabilizzato i mercati del debito sovrano nei paesi dell’Eurozona.

Ancora una volta l’euro ha fornito un quadro disciplinare e un freno al deficit, in contrasto con la sconsideratezza del bilancio dei paesi che sono vittime del nazionalismo monetario e, in particolare, gli Stati Uniti e soprattutto l’Inghilterra, che ha chiuso con un disavanzo pubblico del 10.1% del PIL nel 2010 e dell’8,8% nel 2011, su scala mondiale superata solo da Grecia e Egitto. Nonostante tali deficit e pacchetti di stimolo fiscale, la disoccupazione in Inghilterra e negli Stati Uniti rimane a livelli record (o molto alta) e le loro rispettive economie non sono decollate.

In terzo luogo, e soprattutto, c’è una crescente pressione per una completa unione politica europea, che alcuni indicano come l’unica “soluzione” che potrebbe consentire la sopravvivenza dell’Euro nel lungo periodo. Oltre agli “eurofanatici”, che difendono sempre ogni scusa che possa giustificare un maggiore potere e il centralismo di Bruxelles, due gruppi condividono il sostegno all’unione politica. Un gruppo è costituito, paradossalmente, dai nemici dell’euro, in particolare quelli di origine anglosassone: ci sono gli americani che, abbagliati dal potere centrale di Washington e consapevoli che non potrebbe essere replicato in Europa, sanno che con la loro proposta stanno iniettando un virus letale per l’euro; e ci sono gli inglesi, che rendono l’euro un (ingiustificato) capro espiatorio su cui sfogare le loro (completamente giustificate) frustrazioni in vista del crescente interventismo di Bruxelles.

L’altro gruppo è costituito da tutti quei teorici e pensatori che credono che solo la disciplina imposta da un governo centrale possa garantire gli obiettivi di deficit e debito pubblico stabiliti nel trattato di Maastricht. Nonostante ciò, il problema più serio non giace nella minaccia di un’impossibile unione politica, ma nell’inconfutabile fatto che una politica di espansione del credito, portata avanti in modo sostenuto dalla BCE in un periodo di apparente prosperità economica, sia capace di cancellare, almeno temporaneamente, gli effetti disciplinanti esercitati dall’euro sugli agenti economici di ogni paese.

Quindi, l’errore fatale della BCE consiste nel non essere riuscita a isolare e proteggere l’Europa dalla grande espansione del credito orchestrata su scala mondiale dalla Fed e iniziata nel 2001. Per diversi anni, in un lampante fallimento nell’osservazione del Trattato di Maastricht, la Banca Centrale Europea ha permesso che l’M3 crescesse ad un tasso più alto del 9% annuo, che di gran lunga supera l’obiettivo della crescita del 4,5% dell’offerta di denaro, un punto originariamente fissato dalla BCE stessa. Inoltre, sebbene questo aumento sia stato sensibilmente meno imprudente rispetto a quello creato dalla Fed, il denaro non è stato distribuito in maniera uniforme tra i paesi dell’Unione monetaria e ha avuto un impatto sproporzionato sui paesi periferici (Spagna, Portogallo, Irlanda e Grecia), che hanno visto i loro aggregati monetari crescere ad un ritmo molto più rapido, tra le tre e le quattro volte maggiore, rispetto a Francia e Germania.

Molti motivi possono essere addotti per spiegare questo fenomeno, dalla pressione applicata da Francia e Germania, entrambe alla ricerca di una politica monetaria che in quegli anni non sarebbe stata troppo riduttiva per loro, all’estrema mancanza di lungimiranza dei paesi periferici, che non hanno voluto ammettere di essere nel bel mezzo di una bolla speculativa, come il caso della Spagna, e quindi non erano in grado di dare istruzioni categoriche ai loro rappresentanti nel Consiglio della BCE affinché rendessero importante il rispetto rigoroso degli obiettivi stabiliti dalla Banca Centrale Europea stessa. Infatti, durante gli anni precedenti la crisi, tutti questi paesi, tranne la Grecia, hanno facilmente osservato i limiti di deficit del 3%, e alcuni, come Spagna e Irlanda, hanno persino chiuso i loro conti pubblici con grandi surplus.

Quindi, se il cuore dell’Unione Europea è stato escluso dal processo americano di irrazionale esuberanza, il processo è stato ripetuto con grande intensità nei paesi europei periferici, e nessuno, o poche persone, hanno correttamente diagnosticato il grave pericolo che incombeva. Se gli accademici e le autorità politiche sia dei paesi interessati che della BCE, piuttosto che usare gli strumenti analitici macroeconomici e dei monetaristi importati dal mondo anglosassone avessero usato quelli della teoria austriaca del ciclo economico – che dopo tutto è un prodotto del più genuino pensiero continentale – essi sarebbero riusciti a identificare in tempo la natura artificiale della prosperità di questi anni, l’insostenibilità di molti investimenti (specialmente rispetto allo sviluppo del settore immobiliare) che venivano intrapresi grazie alla grande disponibilità di credito e la natura, di breve durata, del sorprendente influsso delle crescenti entrate pubbliche.

Eppure, fortunatamente, anche se nel ciclo più recente la BCE non è stata all’altezza degli standard che i cittadini europei avevano il diritto di aspettarsi, e potremmo anche chiamare la sua politica una “solenne tragedia”, la logica dell’euro come valuta unica ha prevalso così chiaramente da esporre gli errori commessi, obbligando tutti a tornare sul sentiero del controllo e dell’austerità. Nella prossima sezione ci soffermeremo brevemente sul modo specifico in cui la Banca Centrale Europea ha formulato la sua politica durante la crisi e in quali punti questa politica differisca da quella seguita dalle banche centrali di Stati Uniti e Regno Unito.

6. Euro contro Dollaro (e Sterlina) e Germania contro Stati Uniti (e Gran Bretagna) Una delle più importanti caratteristiche dell’ultimo ciclo, culminato nella Grande Recessione del 2008, è stata, senza dubbio, il differente comportamento nelle politiche fiscali e monetarie dell’area Anglo Sassone, basate sul nazionalismo monetario e quelle perseguite dai paesi membri dell’unione monetaria europea. Effettivamente, dall’inizio della crisi, sia la Fed che la Banca d’Inghilterra hanno adottato politiche monetarie di riduzione dei tassi vicine allo zero; immissione di grandi quantità di moneta nell’economia (eufemisticamente chiamate “alleggerimento quantitativo”); e continua, diretta e sfacciata monetizzazione del debito pubblico.

A questa politica monetaria permissiva (con la benedizione dei monetaristi e Keynesiani) è stato aggiunto un forte stimolo fiscale con lo scopo di mantenere, sia negli Usa che in GB, i deficit di bilancio vicini al 10% del Pil (riduzione considerata insufficiente dalla maggior parte dei Keynesiani recalcitranti, tra cui Krugman). In contrasto con la situazione del dollaro e della sterlina, nell’area euro, fortunatamente, il denaro non può essere così facilmente iniettato nell’economia, né l’avventatezza di bilancio può essere mantenuta indefinitamente.

Almeno in teoria, la Bce manca dell’autorità necessaria alla monetizzazione del debito pubblico e, sebbene abbia accettato bond sovrani come collaterali dei suoi enormi prestiti al settore bancario e abbia iniziato, a partire dall’estate del 2010, ad acquistare direttamente e sporadicamente obbligazioni dei paesi periferici (Grecia, Portogallo, Irlanda, Italia e Spagna), vi è certamente una differenza economica fondamentale tra il comportamento degli Stati Uniti e quello del Regno Unito e la politica seguita dall’Europa continentale: mentre l’aggressività monetaria e la spericolatezza fiscale vengono deliberatamente e sfacciatamente adottate senza riserve nel mondo Anglo Sassone, in Europa tali politiche sono perseguite controvoglia e, in molti casi, dopo numerosi, ripetuti ed infiniti “summit”.

Sono il risultato di lunghi ed estenuanti negoziati tra le parti, nei quali paesi con diversi interessi devono raggiungere un accordo. Inoltre, molto più importante, quando la cartamoneta è iniettata nell’economia, supportando i debiti sovrani dei paesi in difficoltà, tali azioni sono sempre bilanciate con, e consentite in cambio di, riforme basate sull’austerità di bilancio (e non pacchetti di stimolo fiscale) e sull’introduzione di politiche dal lato dell’offerta che incoraggiano liberalizzazioni e competitività [39]; in più, sebbene sarebbe stato meglio fosse accaduto prima, la sospensione “de facto” dei pagamenti da parte della Grecia, al quale è stato concesso un “haircut” del 75% verso i privati investitori che erroneamente avevano investito in obbligazioni sovrane elleniche, ha dato un chiaro segnale ai mercati per cui gli altri paesi in difficoltà non hanno alternativa, se non quella di implementare senza ritardo le rigorose e severe riforme necessarie.

Come abbiamo visto, anche stati come la Francia, che ora sembrano intoccabili e soavemente avvolte da uno straripante welfare state, hanno perso valutazioni in termini di rating creditizio sul debito, dato il differenziale col bund tedesco, vedendosi condannati all’introduzione di austerity e riforme liberali per evitare di mettere in pericolo la loro membership tra i paesi europei sostenitori della linea dura [40]. Dal punto di vista politico, è abbastanza ovvio che la Germania (in particolare la cancelliera Angela Merkel) abbia un ruolo principale nella battaglia di stabilizzazione fiscale e austerity (opponendosi a tutte le proposte inopportune, come gli “eurobond”, che rimuoverebbero gli incentivi, per i diversi paesi, ad una azione rispettosa dei bilanci). Molte volte la Germania è costretta a nuotare controcorrente.

Da una parte, c’è una costante pressione politica internazionale per l’adozione di misure di stimolo fiscale, soprattutto dall’amministrazione Obama, che sta usando la “crisi dell’euro” come una cortina fumogena al fine di nascondere i propri fallimenti politici; dall’altro lato, la Germania deve confrontarsi con il rifiuto e l’incomprensione da parte di tutti coloro che vogliono rimanere nell’euro solo per i vantaggi che questo offre mentre, simultaneamente, essi si ribellano contro la disciplina fiscale che la moneta unica impone, soprattutto ai politici populisti e più irresponsabili e ai gruppi di interesse privilegiati. In tutti i casi, e come illustrazione che, comprensibilmente, farà infuriare i Keynesiani e i monetaristi, dobbiamo mettere in luce i risultati non confortanti che, ad ora, sono stati raggiunti con gli stimoli fiscali Americani e gli “alleggerimenti quantitativi”, comparati alle politiche dal lato dell’offerta tedesche e l’austerità fiscale nella zona euro: deficit di bilancio tedesco 1% – deficit Usa oltre 8,20 %; disoccupazione tedesca 5,9% – disoccupazione Usa vicina al 9%; inflazione tedesca 2.5% – inflazione Usa 3.17%; crescita tedesca 3% – crescita Usa 1.7% (i dati del Regno Unito sono ancora peggiori di quelli americani). Lo scontro tra paradigmi non potrebbe essere più evidente [41].

7. Conclusione: Hayek contro Keynes Proprio come col gold standard a suo tempo, oggi una marea di persone criticano e incolpano l’euro per il suo principale pregio: la capacità di disciplinare i politici stravaganti e i gruppi di pressione. Chiaramente, in nessun modo l’euro costituisce lo standard monetario ideale, il quale, come abbiamo precedente visto, può solo essere costituito dal classico gold standard, con un coefficiente di riserva del 100% sui depositi a vista e l’abolizione della banca centrale. Perciò, è possibile che, trascorso un certo periodo di tempo e calmatisi i tumulti finanziari, la Bce possa tornare a commettere gravi errori del passato, promuovendo e favorendo la crescita di nuove bolle di espansione creditizia[42].

Tuttavia, lasciateci ricordare che i peccati della Fed e della Banca d’Inghilterra sono stati molto peggiori e che, almeno nell’Europa continentale, l’euro ha messo fine al nazionalismo monetario e, per gli stati membri, sta agendo, timidamente, come “proxy” (approssimazione) del gold standard, incoraggiando rigore fiscale e riforme mirate a migliorare la competitività, mettendo fine agli abusi del welfare state e della demagogia politica. Comunque sia, dobbiamo riconoscere di essere in una congiuntura storica [43]. L’euro deve sopravvivere se tutta l’Europa vuole adottare la tradizionale stabilità monetaria tedesca, che, in definitiva, è l’unico ed essenziale modello attraverso cui, nel breve e nel medio termine, la competitività europea e la crescita possono essere sostenute. Su scala mondiale, la sopravvivenza e il consolidamento dell’euro permetterà, per la prima volta dalla Seconda Guerra Mondiale, l’emersione di una valuta capace di competere concretamente col monopolio del dollaro come standard monetario internazionale, quindi capace di disciplinare l’attitudine americana a provocare crisi finanziarie sistemiche, come quella del 2007, che mettono costantemente in pericolo l’ordine economico mondiale.

Poco più di 80 anni fa, in un contesto storico simile al nostro, il mondo era diviso tra il mantenimento del gold standard, con la disciplina fiscale che questo comportava, la flessibilità lavorativa e il libero e pacifico commercio e il suo abbandono, con la conseguente diffusione del nazionalismo monetario, le politiche inflazionistiche, le rigidità lavorative, l’interventismo, il “fascismo economico” e il protezionismo. Hayek e gli Austriaci guidati da Mises compirono uno sforzo intellettuale titanico nell’analizzare, spiegare e difendere i vantaggi del gold standard e del libero scambio, in opposizione ai teorici, guidati da Keynes e dai monetaristi, che scelsero di ripudiare i fondamenti fiscali e monetari del laissez faire, i quali avevano innescato la Rivoluzione Industriale e il progresso della civilizzazione [44].

In quella occasione, il pensiero economico prese una strada diversa da quella preferita da Mises e Hayek e tutti noi abbiamo familiarità con le conseguenze economiche, politiche e sociali che fecero seguito a quella scelta. Come conseguenza, oggi, nel ventunesimo secolo, incredibilmente, il mondo è ancora afflitto da instabilità finanziaria, mancanza di disciplina di bilancio e demagogia politica. Per tutte queste ragioni, ma principalmente perché l’economia mondiale ne ha un estremo bisogno, in questa nuova occasione [45], Mises e Hayek meritano una rivincita e l’euro (almeno provvisoriamente, finché non sarà rimpiazzato una volta per sempre dal gold standard) merita di sopravvivere[46].

Traduzione di Francesco Simoncelli, Antonio Manno, Nicolò Signorini e Luigi Pirri 4/fine

Aggiornato il 01 aprile 2017 alle ore 18:38