Niente tagli a tasse e sprechi

L'avevamo capito già dopo la manovra di dicembre (il cosiddetto decreto "Salva-Italia"), ma allora il ricorso quasi unicamente a nuove tasse, anziché ai tagli di spesa, per correggere i conti pubblici poteva essere giustificato con il poco tempo a disposizione per salvare il Paese, giunto sull'orlo del baratro in cui stava precipitando la Grecia. Trascorsi quattro mesi, dopo che le azioni della Bce e l'autorevolezza personale del professor Monti ci hanno fatto guadagnare tempo prezioso, l'intervista al sottosegretario Piero Giarda sgombra il campo dagli ultimi equivoci: non è che non ne sia capace, o che non ne abbia il tempo, il governo dei tecnici non vuole mettere a dieta lo Stato per diminuire la pressione fiscale, cioè non ha alcuna intenzione di adottare l'unica ricetta in grado sia di far scendere il debito pubblico che di rilanciare la crescita. In questo senso le parole di Giarda sono davvero illuminanti: obiettivo del governo Monti non è salvare l'Italia, gli italiani, ma lo Stato con tutti i suoi baracconi, centrali e periferici. Non vuole cambiare l'attuale modello socio-economico, che vede lo Stato intermediare oltre la metà della ricchezza prodotta. Vuole salvarlo, obeso com'è, perpetuarlo, apportando al sistema gli aggiustamenti minimi indispensabili, perché tutto sommato è un Bengodi per gli "incumbent" politici, economici e sociali di cui è espressione, e per le burocrazie statali che lo gestiscono.

Se per Alesina e Giavazzi la spending review è «l'unica carta che rimane da giocare» per «ridurre il peso dello Stato sull'economia», nella sua intervista a "La Stampa" il sottosegretario Giarda ha già avvertito che da essa non bisogna aspettarsi risparmi da destinare ad una riduzione delle tasse. Ma attenzione, perché non sta semplicemente dicendo che non è il momento di abbassare le tasse; sta in realtà teorizzando che sia accettabile il livello attuale di spesa pubblica, che ormai sarebbe «costante» da quattro anni, e che l'obiettivo della spending review è solo di renderlo sostenibile nel medio termine. E' lo stesso Giarda a chiarire la differenza tra i due modi di intendere la revisione della spesa pubblica. I «profeti del primo tipo», così li definisce, vorrebbero tagliare compiti e funzioni dell'apparato pubblico per trasferirli al mercato; alla «seconda specie» appartengono coloro che lavorano ad una mera manutenzione della spesa, per accrescerne efficienza ed economicità, evitando quindi di ridefinire, restingendolo, il perimetro dell'intervento statale nell'economia. Ed è questo l'approccio che sta perseguendo il governo, e in particolare il sottosegretario nella sua "review". Insomma, ci vuole convincere che sia stato già tagliato tutto il tagliabile, e che quindi ora si può solo «razionalizzare l'offerta di beni e servizi pubblici», aumentare la loro «efficienza» e «l'economicità degli acquisti». Tagliare ancora, invece, significherebbe mettere in discussione servizi pubblici essenziali. E questo il governo vuole evitarlo.

Si potrebbe discutere a lungo se il totale della spesa pubblica dal 2009 al 2013 sia davvero «costante» (circa 727 miliardi di euro al netto degli interessi), come sostiene Giarda, e se davvero non ci sia ancora dell'adipe da buttare giù dall'addome e dai fianchi della pubblica amministrazione. Da decenni si parla di tagli alla spesa pubblica, ma quasi mai si è trattato di tagli veri. Quelli per cui ci si straccia le vesti sono tagli rispetto alle previsioni annuali di crescita della spesa, i quali infatti non hanno mai impedito che continuasse a lievitare in termini assoluti. Per fare un solo esempio, la spesa per le forniture sanitarie è passata da 37 a 77 miliardi di euro tra il 2000 e il 2008, e non è che la popolazione italiana nel frattempo sia stata colpita da chissà quali epidemie. «I profeti della prima specie che invocano tagli immediati - conclude il sottosegretario - dicano quali servizi pubblici vorrebbero smontare e trasferire al mercato». Ebbene, i servizi pubblici locali, per esempio, per i quali la lettera della Bce dell'agosto scorso suggeriva «privatizzazioni su larga scala», mentre l'attuale governo è riuscito solo a prevedere che gli enti locali che intendono continuare con il conferimento "in house" del servizio debbano chiedere un parere dell'Antitrust - obbligatorio, ma non vincolante.

Come certificano le parole del sottosegretario Giarda - e già mesi fa la Corte dei Conti constatando l'ulteriore aumento del livello di intermediazione del bilancio pubblico - la risposta di questo governo alla crisi è in totale continuità con quella di tutti i governi - politici o "tecnici" - che si sono susseguiti dai primi anni '90 in poi. E in estrema sintesi consiste nella statalizzazione a tappe forzate della ricchezza privata, così da consentire alle classi politiche e burocratiche di continuare a elargire ai propri clientes sempre più spesa pubblica, ricavandone potere e privilegi. Dal 1990 fino ad oggi lo Stato si è appropriato di circa 7 punti percentuali in più di Pil. Tanto è aumentata la pressione fiscale, dal 38% del 1990 al 45% del 2013. Nello stesso periodo il debito pubblico è prima calato lievemente - in termini percentuali rispetto al Pil, non certo assoluti - per poi tornare a salire vertiginosamente per effetto della crisi, e la spesa pubblica è passata da 373 miliardi di euro a quasi 800 miliardi. Segno evidente che la ricchezza sottratta agli italiani non è servita a rimettere a posto i conti e a ridurre il debito, ma a produrre altra spesa pubblica e ulteriore debito.

Arrivati al punto in cui siamo oggi, pensare di onorare gli impegni di rientro dal debito previsti nel fiscal compact mantenendo gli attuali livelli di spesa pubblica e di tassazione, e rinunciando ad abbattere lo stock del debito attraverso le privatizzazioni, significa accettare di continuare a crescere poco o niente, come negli ultimi due decenni, nella migliore delle ipotesi, o più probabilmente di rischiare ogni anno il tracollo finanziario. Più di tutto però Giarda e gli altri tecnici al governo sembrano temere «lo scardinamento della "way of life" del settore pubblico italiano». L'intermediazione statale va preservata a tutti i costi nelle sue grandezze fondamentali, anche al prezzo di distruggere il tessuto produttivo del Paese. Peccato che più che una "way of life" quella italiana si sia rivelata una via certa verso il declino - economico, sociale e civile del Paese.

Aggiornato il 01 aprile 2017 alle ore 18:34