Il sud-est dell’Asia non è mai stato così vicino dai tempi di Emilio Salgari. Labuan e la sua perla mai così bramate. Storie di pirati e imperi. Regimi e popoli sottomessi. Come difendere un sogno rubato all’alba di un nuovo giorno. Il Brunei potrebbe essere la nuova Taiwan, un piccolo Stato destinato a perdere la sua indipendenza. Il racconto parte da lontano e arriva fino a noi. Fede, giustizia, libertà dagli oppressori. Salgari non li elenca: li incide. Li scolpisce sulla carta mentre scrive di Sandokan, la Tigre della Malesia, il corsaro più famoso del Mar della Cina, l’eroe che nasce dalla parte sbagliata della storia e per questo la guarda dritta negli occhi. Anche quando è difficile ritrovarsi e trovare la forza di ribaltare i pronostici. Salgari non è mai stato un esotico da salotto. È uno che combatte con la penna. Non ha visto quei mari, ma li ha immaginati meglio di chi li ha attraversati con la bandiera dell’Impero cucita sul petto. Sandokan non è un bandito romantico. È un re spodestato, un uomo a cui hanno rubato la terra, l’onore, il futuro.

È la risposta narrativa al colonialismo raccontato sempre come missione civilizzatrice e mai come rapina armata (anche questo farà discutere chi segue la serie Rai). La pellicola funziona non tradisce questo nucleo duro. Non addolcisce e non censura, come è giusto che sia. Racconta il potere coloniale britannico per quello che è stato. L’Impero, in Salgari, non è elegante: è efficiente. Ed è proprio questo il suo peccato. Perché l’efficienza senza giustizia diventa oppressione. Sandokan combatte. Combatte perché crede. Crede nella fedeltà, nella parola data, in una libertà che non è slogan ma sangue versato. Non è un rivoluzionario da hashtag: è un uomo che paga tutto di persona. Intorno a lui c’è un fratello, il portoghese Yanez, uno che ha vissuto tutto il peso del crocifisso e non spiega: ride. Combatte anche lui, con l’ironia come arma e il coraggio come corazza. E poi c’è l’amore. Marianna. La perla di Labuan. L’unica vera fragilità della Tigre.
Salgari fa una cosa spietata: mette l’amore in mezzo alla guerra e non lo salva. Perché la libertà costa. Sempre. Anche quando ti spezza il cuore. Il successo della serie dice però qualcosa di più profondo. Dice che il pubblico non ha bisogno di storie sterilizzate, di eroi rieducati, di pirati che chiedono scusa. Questo lasciamolo ai pasdaran woke. E al loro bavaglio. Significa che abbiamo ancora fame di miti tragici, di giustizia imperfetta, di uomini che non vincono perché sono buoni, ma perché resistono. Sandokan non è politicamente corretto. È politicamente vero. È l’epica degli sconfitti che non si arrendono, di chi perde tutto tranne la dignità. In tempi di eroi di cartone, Salgari resta lì, come una lama affilata: a ricordarci che la libertà arriva con il coraggio di chi decide di non inginocchiarsi. Anche se sa che il prezzo sarà altissimo. Il figlio della tigre è tornato.
Aggiornato il 17 dicembre 2025 alle ore 14:37
