“Essere esclusivi” è lo slogan che facciamo continuamente di noi stessi appena ci disconnettiamo per qualche secondo dalle app social. Ma dura solo qualche secondo, il tempo di scaricarsi finché non ci riconnettiamo nel mondo dell’iperrelativismo. Platone aveva formulato il mondo delle idee come di una dimensione a noi invisibile ma a cui siamo tesi per conoscere veramente noi stessi, ovvero la nostra idea di umanità che la materia corrompe quotidianamente. Il fenomeno che avviene amplificandosi sulle piattaforme social negli ultimi 5 anni, dall’esplosione della pandemia da Covid 19, è una tensione verso il mondo delle anti-idee, dove nessuno ha una idea del sé, ma del “se” condizionale.
Se prima la spinta della riflessione interiore proveniva dalla materia concreta della scelta nel presente verso l’astrazione del pensiero, adesso la riflessione è mossa da un’anti-materia, dalla virtualità che pone tutti come spettatori di scelte altrui da aggiungere alla propria esperienza come a un carrello della spesa. Tra i giovani non si fa esperienza, ma si simula continuamente l’esperienza inconsapevoli della caducità delle loro certezze che si frantumano appena posano il cellulare e scendono nel reale. La riduzione di tutto il reale a un’icona virtuale è ciò che rende il futuro delle nuove generazioni un eterno presente condizionale, dove tutto è incerto, dove tutto “dipende” ma non da loro, ma dagli altri. Questa condizione che sta diffondendosi nelle nostre abitudini sociali, priva anche di costanza e di volontà i nostri rapporti e i nostri sentimenti, le nostre emozioni più autentiche e istintive, insieme alle nostre reazioni che stanno diventando sempre più schematiche, codificate da emoticon e robotizzate.
Adeguarsi a tutto questo significa spezzare i legami naturali della società su cui è fondata la nostra civiltà umana, e soccombere alla solitudine dell’indifferenza tra uomo e utente. Quando il singolo soggetto diventa un semplice oggetto sostituibile a qualunque altro nella società delle icone come la nostra, la conseguenza più diretta è il rischio di isolarci non solo dai nostri valori morali, ma anche dai nostri stimoli esistenziali, generando una vera e propria depressione dell’essere umani. Per questo a otto mesi dalla comparsa della statua di Thomas J. Price a Firenze in Piazza della Signoria, la donna dallo sguardo indifferente, quasi vegetale, immerso nell’orbita dello schermo del suo cellulare che sembra quasi retto come un trofeo, innalzato all’altezza del viso della ragazza, compare un altra icona dell’attualità.
Chi inizia a salire sulla scalinata della terrazza del Pincio a Roma, può sbirciare una forma rotonda con un diamante alla sua sommità. È il Solitário dell’artista portoghese Joana Vasconcelos allestito dal primo dicembre. L’artista 54enne, già autrice di un’altra opera esposta attualmente al Kunsthal di Rotterdam, I’ll be your mirror, ripropone stavolta sulla terrazza ottocentesca del belvedere romano una dimensione della falsa provocazione. Il giardino da cui oggi si accede per la terrazza è il gioiello della borghesia romana cui era destinato lo spazio originariamente per lo svago aristocratico. E questa esclusività del prezioso è ripresa dall’opera di Vasconcelos, che si erge solitaria al cielo di una nuova epoca.
L’epoca in cui è l’oggetto che qualifica l’uomo, e non l’uomo l’oggetto, laddove l’unica vera differenza è l’ornamento dell’apparenza. Quest’opera realizzata grazie alla Fondazione Valentino Garavani e Giancarlo Giammetti, col contributo dello spazio culturale PM23, è la seconda dell’artista portoghese a Roma, ma non per questo meno inattesa. Alle porte di Natale l’anello del solitario che generalmente segna l’unione affettiva e la fedeltà di una coppia, raccoglie la positività dei passanti nella Città eterna come per l’esordio di una stagione piena di promesse, ma anche come la giusta premessa per l’anno nuovo. Ma non è solo questo che il Solitário rappresenta nella visuale dello spettatore. L’idea vergine di chi osserva è la ricchezza, il benessere di una dolce vita, o forse un sogno di vivere a tutti i costi dolcemente la vita.
Il motivo per cui questa installazione è stata collocata al Pincio è puramente a fine decorativo da parte del Comune di Roma, per addobbare maestosamente uno dei centri più affollati di Roma, e non affatto provocatorio. Quel che si trascura è l’origine di quest’opera, ossia come giunge ad essere costruita. La verità che potrebbe sfuggire all’occhio dei passanti è proprio la solitudine che incorpora quest’oggetto gigante al di fuori delle coscienze individuali. Chi osserva oggi il Solitário non riesce a comprendere veramente quanto ingombrante sia divenuta nella vita del singolo la nostra indifferenza a ciò che è autentico e piccolo, a ciò che è simbolo e non icona, a ciò che è diverso e non seriale. Ma soprattutto Solitário è il debito inconsapevole della nostra solitudine individuale ed esclusione dal reale.
Aggiornato il 16 dicembre 2025 alle ore 15:51
